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Il cappelluccio non sarà rivelato a nessuno, non è coraggioso, a questo punto, il nostro Faust…

Tacevo. Snaut continuava a barcollare sulle gambe. Le lacrime scendevano dalla sua faccia bagnando il vestito.

— Chi ha fatto questo? Chi di noi ha fatto questo?

Gibarian? Giese? Einstein? Platone? Tutti delinquenti, sai!

Pensa che in un razzo l’uomo può scoppiare come un pallone o restare pietrificato, o andare arrosto, e poi rimangono solo gli ossicini, a ballonzolare fra le pareti di latta, sulle orbite del progresso! Noi abbiamo seguito, con gioia, questa stupenda via… e siamo arrivati, e in queste celle, sopra questi piatti, tra immortali lavandini, con una schiera di armadi fedeli, di gabinetti affezionati, qua c’è la nostra realizzazione…

Guarda, Kelvin. Se non fossi ubriaco non avrei parlato in questo modo, ma qualcuno, alla fine, deve parlare. Qualcuno, alla fine, deve parlare! Te ne stai seduto, come un bambino in un mattatoio, e ti cresce il pelo… Di chi è la colpa? Risponditi da solo…

Lentamente si girò e uscì, sulla soglia si aggrappò allo stipite per non cadere. Si udiva ancora l’eco dei suoi passi che risuonavano nel corridoio. Evitai di guardare Harey, però i nostri occhi si incrociarono. Avrei voluto avvicinarmi a lei, accarezzarle i capelli, ma non potevo. Non potevo.

13. IL SUCCESSO

Le tre settimane seguenti furono come un solo e identico giorno, che si ripeteva sempre, le saracinesche si chiudevano e aprivano, di notte continuavo a essere tormentato dagli incubi, alla mattina ci svegliavamo, ci alzavamo e la commedia ricominciava. Era una commedia? Fingevo di essere tranquillo, e Harey anche; questa intesa muta, la consapevolezza del reciproco inganno, ci forniva l’ultima scappatoia. Parlavamo spesso di come avremmo vissuto sulla Terra, in qualche grande città, e non avremmo più abbandonato il cielo azzurro e gli alberi verdi, e inventavamo l’arredamento degli interni e il giardino, e litigavamo sui particolari… sulla siepe, o le panchine… Ho mai creduto, per un solo istante, a quel che dicevo? No. Sapevo che era impossibile. Lo sapevo. Anche se lei avesse potuto abbandonare la stazione e sopravvivere, sulla Terra poteva atterrare solo un essere umano, provvisto di documenti. Il primo controllo avrebbe posto termine alla fuga. Avrebbero cercato di identificarla, ci avrebbero separati. La stazione era l’unico luogo dove potessimo vivere insieme. E Harey, lo sapeva? Sicuramente. Gliel’aveva detto qualcuno? Certamente sì, alla luce di ciò che ancora doveva accadere.

Una notte udii, nel sonno, che Harey si alzava silenziosamente. Volevo abbracciarla. Solo nel silenzio, nel buio, potevamo per un attimo liberarci dalla disperazione, dimenticare noi stessi, nella tortura che ci braccava da ogni lato. Non si accorse che mi ero svegliato. Prima che riuscissi ad alzare la mano, scese dal letto. Sentii, sempre nel dormiveglia, il rumore del suo passo scalzo. Mi invase un’oscura paura.

— Harey? — sussurrai. Volevo gridare, ma non ci riuscii. Sedetti sul letto. La porta che dava sul corridoio era appena socchiusa. Un filo di luce attraversava la cabina. Mi pareva di udire delle voci. Parlava con qualcuno? Con chi? Saltai giù dal letto, ero terrorizzato, le gambe mi tremavano, rimasi inchiodato, tendendo l’orecchio: silenzio. Lentamente tornai a sdraiarmi. La testa mi scoppiava dalle pulsazioni. Cominciai a contarle. Mi avvicinavo a mille, quando mi interruppi.

La porta si aprì senza il minimo rumore. Harey scivolò nel letto, rimase immobile, come se ascoltasse il mio respiro, tentai di farlo sembrare regolare. — Chris…? — sussurrò piano.

Non risposi. Alla svelta, si coricò. Sentivo che rimaneva rigida, e io non mi mossi, non so per quanto tempo. Provavo a escogitare una domanda; però, più tempo passava, più mi accorgevo che non avrei parlato per primo. Poi mi addormentai, forse dopo un’ora.

La mattina fu uguale alle altre. La guardavo di soppiatto, quando non poteva vedermi. Dopo pranzo eravamo seduti l’uno accanto all’altra, dinanzi alla grande vetrata ricurva, dietro la quale passavano delle nubi color ruggine. La stazione le tagliava come una nave. Mentre Harey leggeva un libro io stavo a osservarla, spesso unico svago possibile. A un tratto mi accorsi che, sporgendomi con la testa in un certo modo, potevo vedere nel vetro il riflesso di noi due, trasparente, però chiaro. Tolsi la mano dal bracciolo. Harey (la vidi nel vetro), dopo essersi assicurata con una rapida occhiata che guardavo verso l’oceano, si chinò sul bracciolo e toccò con le labbra il punto dove si era posata la mia mano poco prima. Rimasi ancora seduto così, irrigidito in modo innaturale, e lei tornò ad abbassare la testa sul libro.

— Harey — dissi piano, — dove sei stata questa notte?

— Stanotte?

— Sì.

— Te… lo sei sognato, Chris. Non sono mai uscita.

— Non sei uscita?

— No, devi essertelo sognato.

— Forse — dissi. — E’ possibile che abbia sognato…

La sera, quando andammo a letto, ricominciai a parlare del nostro ritorno sulla Terra.

— Ah, non voglio sentire — disse. — Non parlarmene, Chris.

Sai…

— Che cosa?

— No. Niente.

Mentre eravamo sdraiati, disse di avere sete.

— Là, sul tavolo, c’è un bicchiere di succo di frutta, prendimelo, ti prego. — Ne bevve una metà e me lo passò. Non avevo voglia di bere.

— Alla mia salute. — Sorrise. Sorseggiai il succo di frutta, che mi sembrò un po’ salato, ma non ci feci molto caso. — Se non vuoi che parli della Terra, di che cosa vuoi che parli? — domandai quando spense la luce.

— Se io non ci fossi, ti sposeresti?

— No.

— Mai?

— Mai.

— Perché?

— Non lo so. Sono stato da solo per dieci anni e non mi sono sposato. Be’, non parliamo di questo, amore…

La testa mi ronzava come se avessi scolato una bottiglia di vino.

— Parliamo, sì, parliamo. E se io te lo chiedessi?

— Che io mi sposi? E’ assurdo, Harey. Non ho bisogno di nessuno, tranne te.

Si chinò su di me. Sentivo il suo respiro, mi abbracciò così forte che per un attimo il sonno che avevo mi passò completamente.

— Dimmelo in un altro modo.

— Ti amo.

Si abbatté con la sua testa sulla mia spalla, sentii le sue ciglia che fremevano, le sue lacrime.

— Harey, cos’hai?

— Niente… niente… niente — ripeté piano.

Cercavo di tenere gli occhi aperti perché mi si chiudevano da soli. Non so quando, mi addormentai.

Mi svegliò l’alba rossa. Mi sembrava di avere la testa di piombo, e la nuca era irrigidita, come se tutte le vertebre fossero saldate in un unico osso. Avevo la lingua impastata, non riuscivo a muoverla nella bocca. «Devo essermi intossicato con qualche cosa» pensai alzando con sforzo la testa. Con una mano cercavo Harey. Trovai solo il lenzuolo freddo. Mi alzai di colpo.

Il letto era vuoto. Nella cabina, nessuno. La vetrata curva rifletteva una fila di soli rosa. Saltai a terra. Dovevo sembrare comico, poiché ciondolavo come un ubriaco.

Mi aggrappai agli oggetti; mi precipitai all’armadio scorrevole: il bagno era vuoto. Il corridoio anche. E nel laboratorio non c’era nessuno.

— Harey! — urlai in mezzo al corridoio, muovendo disperatamente le braccia. — Harey! — gracchiai ancora una volta; avevo già capito.

Non ricordo più che cosa sia successo in seguito. Devo avere corso seminudo per tutta la stazione, ricordo che entrai nella cella frigorifera, e fin nell’ultimo magazzino, picchiando con i pugni contro le porte sbarrate. Forse c’ero stato già una volta. Le scale rimbombavano, cadevo e di nuovo, alzandomi, correvo, finché trovai un ostacolo trasparente, dietro il quale c’era l’uscita esterna: erano le doppie porte blindate.