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Durante i dieci anni successivi, Solaris, che adesso era al centro dell’attenzione di tutti gli osservatori di quel settore spaziale, rivelò la sorprendente tendenza a conservare costante, a dispetto dell’attrazione gravitazionale dei suoi soli, un’orbita che, indiscutibilmente, sarebbe dovuta essere variabile. Per un certo periodo la questione parve quasi sollevare uno scandalo, poiché (nell’interesse della scienza) doveva per forza trattarsi di un errore d’osservazione da imputare ai ricercatori che se ne occupavano o alle caratteristiche dei calcolatori impiegati.

La mancanza di fondi ritardò, per tre anni, una vera e propria spedizione solaristica, fino al momento in cui Shannahan completò la sua squadra e ottenne dall’Istituto il comando di tre unità di tonnellaggio C, classe portanavette.

Un anno e mezzo prima dell’arrivo della spedizione, partita dall’Alfa dell’Acquario, una seconda flotta d’esplorazione, per conto dell’Istituto, mise in orbita intorno a Solaris un satellite automatico, il Luna 247. Questo satellite, dopo tre ricostruzioni complete, eseguite a una decina d’anni d’intervallo, è tuttora funzionante. I dati che ha raccolto sono serviti a confermare definitivamente le osservazioni della spedizione di Ottenskjold circa il carattere attivo dei movimenti dell’oceano.

Una nave di Shannahan rimase in orbita alta; le altre due, dopo alcune prove preliminari, si posarono su un ripiano roccioso di circa mille chilometri quadrati presso il Polo Sud del pianeta Solaris.

I lavori della spedizione durarono diciotto mesi e, salvo un deplorevole incidente dovuto a un difetto meccanico di funzionamento, non incontrarono problemi. Tuttavia il gruppo di scienziati finì col dividersi in due opposte fazioni. Il pomo della discordia era l’oceano. In base alle analisi, tutti erano d’accordo sul fatto che si trattasse di una formazione organica (a quell’epoca nessuno osava ancora parlare di un essere vivente). Ma i biologi lo consideravano alla stregua di un corpo primitivo, simile a un nucleo gigantesco, a una singola cellula fluida di dimensioni planetarie (la chiamarono «formazione prebiologica»), che avvolgeva tutto il globo in un involucro colloidale, profondo in certi punti vari chilometri; i fisici, invece, prendevano in esame la possibilità che fosse una struttura straordinariamente e perfettamente organizzata, superiore forse, in quanto a complessità, anche agli organismi terrestri, poiché era in grado d’influire in modo attivo sull’andamento dell’orbita seguita dal pianeta. Non era stata formulata nessun’altra spiegazione per chiarire il comportamento di Solaris; inoltre i fisici planetologi avevano individuato un rapporto tra certi processi dell’oceano plasmatico e il valore dell’attrazione gravitazionale, che variava in corrispondenza del ricambio della materia dell’oceano.

Furono quindi i fisici, e non i biologi, a coniare il termine paradossale di macchina plasmatica, intendendo con ciò una formazione priva forse di vita secondo i nostri concetti, ma capace d’intraprendere attività utili su scala (diciamolo subito) astronomica.

In poche settimane, la polemica coinvolse le maggiori autorità, e per la prima volta la teoria di GamowShapley, incontestata da ottant’anni, fu messa in discussione.

Per un certo tempo alcuni cercarono di difenderla, affermando che l’oceano non aveva nulla in comune con la vita, che non era nemmeno una formazione «para» o «prebiologica», ma solo una formazione geologica, insolita indubbiamente, ma capace soltanto di rendere stabile l’orbita di Solaris attraverso spostamenti di forze d’attrazione, e in proposito si richiamavano alla regola di Le Chatelier.

All’opposto furono elaborate ipotesi, fra cui quella particolarmente complessa del CivitaVitta, secondo le quali l’oceano sarebbe stato frutto di uno sviluppo evolutivo: partendo dalla sua primitiva forma di preoceano, soluzione di sostanze chimiche in lenta reazione tra loro, e sotto la pressione delle circostanze ambientali (cioè dei cambiamenti d’orbita che minacciavano la sua esistenza), esso era riuscito a raggiungere lo stadio di «oceano omeostatico» senza passare attraverso la trafila di tutte le fasi di sviluppo terrestri, e saltando così la creazione di esseri mono o multicellulari, l’evoluzione vegetale e animale e la costituzione di un sistema nervoso e cerebrale. In altre parole, diversamente dagli organismi terrestri, non si era adattato all’ambiente attraverso centinaia di milioni di anni, tempo necessario all’apparizione di esseri dotati d’intelligenza, ma aveva dominato subito l’ambiente stesso.

Teoria originale, in verità; nessuno, però, era riuscito a capire come facesse un oceano di gelatina appiccicosa a stabilizzare l’orbita di un corpo celeste. Da circa un secolo erano già state create apparecchiature, chiamate «gravitatori», che producevano campi di forze di gravitazione artificiali; ma era difficile immaginare come un vischio informe potesse raggiungere il risultato che i gravitatori ottenevano con complicate reazioni nucleari a temperature estremamente elevate.

I giornali dell’epoca, destando la curiosità dei lettori e l’ira degli scienziati, erano colmi di assurdità sul tema «Il segreto di Solaris», non escluse quelle che mostravano l’oceano planetario come… un lontano parente della terrestre anguilla elettrica, detta comunemente torpedine.

Quando si riuscì, almeno entro una certa misura, a dare una prima risposta al problema, risultò, come poi doveva puntualmente ripetersi nel campo degli studi solaristici, che la spiegazione non faceva che sostituire un enigma con un altro, a volte ancor più sconcertante.

Le ricerche dimostrarono che l’oceano non funzionava affatto alla stessa maniera dei nostri gravitatori (cosa, del resto, chiaramente impossibile), bensì riusciva a modulare direttamente la metrica dello spaziotempo con l’effetto, fra l’altro, di provocare differenze nella misura degli intervalli di tempo lungo un meridiano di Solaris. Così, dunque, l’oceano non solo conosceva la teoria einsteinboeviana, ma anche ne utilizzava le implicazioni (cosa che, dal canto nostro, non eravamo in grado di fare).

A questa conclusione, nel mondo scientifico scoppiò una delle più violente bufere del secolo. Le teorie universalmente accettate si sbriciolavano, nella letteratura scientifica comparvero articoli eretici e sull’alternativa tra oceano intelligente e s emplice gelatina capace di esercitare un influsso sulla forza gravitazionale si accese la polemica.

Tutto ciò risaliva a una quindicina d’anni prima della mia nascita. Al tempo in cui andavo a scuola, Solaris, alla luce dei dati raccolti nel frattempo, era già comunemente conosciuto come pianeta provvisto di forma di vita, anche se limitata a un solo abitante.

Il secondo volume di Hughes e Eugle, che stavo sfogliando soprappensiero, cominciava con una sistematica delle forme di vita molto originale e direi divertente. La tabella di classificazione dava la seguente tassonomia: «Tipo, «Polytheria»; ordine, «Syncytialia»; classe, «Metamorpha»«.

Pareva quasi che conoscessimo dio sa quanti esemplari di quella specie, mentre in realtà ce n’era uno solo… che pesava però, questo è vero, diciassettemila miliardi di tonnellate.

Sotto le mie dita scorrevano i diagrammi a colori, i grafici variopinti, le analisi spettrografiche che mostravano tipo e frequenza dei ricambi basilari e delle reazioni chimiche.

Quanto più procedevo nella lettura dell’imponente volume, tanto più passavano pagine fitte di formule matematiche; a leggere quel libro si sarebbe davvero potuto credere che la nostra conoscenza di quell’esemplare della classe «Metamorpha» (che, avvolto attualmente dalle tenebre della notte di quattro ore, si stendeva quindici metri sotto lo scafo metallico della stazione) fosse completa.