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— Assolutamente no. Forse si è servito di una formula di produzione che non era espressa in parole. Come uno schema memorizzato in una struttura di albumina. Come la testa di uno spermatozoo, o un uovo. Non ci sono nel cervello parole, sentimenti, ricordi umani, è solo un quadro trascritto nel linguaggio degli acidi nucleici su grosse molecole asincrone.

Così lui ha preso ciò che c’era di più chiaro in noi, ciò che era più chiuso, più pieno, più impresso, capisci? Non aveva assolutamente bisogno di sapere che significato avesse per noi. E’ come se noi riuscissimo a creare un simmetriade e poi lo gettassimo nell’oceano, conoscendo l’architettura, la tecnologia e il materiale di costruzione, però senza sapere a che cosa serva e che cosa significhi per lui…

— E’ possibile — dissi. — Sì, è possibile. In tal caso lui non ha… può essere che non abbia voluto affatto schiacciarci.

Può darsi. E, senza volerlo…

Le labbra cominciavano a tremarmi.

— Kelvin!

— Sì, sì. Bene. Niente. Tu sei buono. Anche lui. Tutti sono buoni. Allora perché? Spiegamelo. Perché? Perché lo hai fatto? Cosa le hai detto?

— La verità.

— La verità, la verità! Quale?

— Lo sai. Vieni da me. Incominceremo a scrivere il rapporto. Vieni.

— Aspetta un po’. Che cosa vuoi, di preciso? Non vorrai mica rimanere nella stazione…?

— Voglio rimanere. Sì.

14. IL VECCHIO MIMOIDE

Sedevo davanti a una grande finestra e guardavo l’oceano.

Non avevo niente da fare. Il rapporto era stato steso in cinque giorni, era adesso un fascio di raggi che attraversava il vuoto oltre la costellazione di Orione. Quando avesse raggiunto la nebulosa oscura che si estende su una superficie di dodicimila milioni di milioni di chilometri quadrati, e che assorbe ogni segnale e raggio di luce, si sarebbe imbattuto in una delle prime stazioni ripetitrici. Da qui, da una boa radio a un’altra, sarebbe saltato per milioni di chilometri, continuando lungo la curva dell’arco, e infine, l’ultimo trasmettitore, un blocco metallico pieno di strumenti di precisione, con la testa allungata per l’antenna direzionale, l’avrebbe concentrato e inoltrato nello spazio verso la Terra. Dopo parecchi mesi un uguale fascio di energie emesso dalla Terra, lasciando dietro di sé una scia di deformazioni nel campo gravitazionale della galassia, avrebbe raggiunto il fronte della nube cosmica, sarebbe scivolato rinforzandosi lungo il cordone libero delle boe, e con non minore velocità si sarebbe diretto verso i doppi soli di Solaris.

L’oceano, sotto il sole rosso in alto nel cielo, era più nero che mai. La nebbia color ruggine formava tutt’uno col cielo.

Era un giorno afoso, come se si preparasse una delle tempeste, rare, ma di una violenza inimmaginabile, che si scatenavano una o due volte all’anno. Secondo certe ipotesi, il clima e le tempeste del pianeta erano controllati dal suo unico abitante.

Ancora per qualche mese avrei dovuto guardare da quelle finestre le aurore di oro bianco, o di rosso cupo, che di tanto in tanto si rispecchiavano in qualche eruzione liquida, nel pallone argentato dei simmetriadi. Avrei contemplato la migrazione degli snelli agilanti trasportati dal vento e avrei indugiato a considerare i vecchi mimoidi semisgretolati. Un certo giorno, poi, tutte le spie luminose dei videotelefoni si sarebbero messe a lampeggiare, la segnaletica elettronica, da tempo inattiva, sarebbe stata avviata da impulsi trasmessi dalla distanza di centinaia di milioni di chilometri, annunciando l’avvicinarsi del colosso metallico che, col boato continuo dei gravitatori, sarebbe sceso verso l’oceano. Sarebbe stato l’Ulisse o il Prometheus, o un altro dei giganteschi incrociatori per lunghe distanze. Dal tetto della stazione sarei salito a bordo attraverso il boccaporto e avrei visto delle file di automi bianchi blindati, automi massicci, che non condividono con l’uomo il peccato originale, e sono così innocenti da eseguire fino in fondo il proprio compito, pronti a distruggersi o a distruggere ogni ostacolo che incontrano, obbedendo rigorosamente agli ordini, registrati dai cristalli della loro memoria. Poi la nave, più veloce del suono, si sarebbe alzata senza rumore, lasciando lontano dietro di sé un boato sulla superficie dell’oceano, mentre le facce della gente di bordo si sarebbero illuminate al pensiero del ritorno a casa.

Ma io non avevo una casa. La Terra? Pensavo alle sue grandi città popolose e rumorose nelle quali mi sarei smarrito, nelle quali sarei scomparso completamente, allo stesso modo che se mi fossi gettato, come avevo pensato di fare due o tre notti prima, nell’oceano che ondeggiava pesantemente nelle tenebre. Sarei annegato tra la gente. Sarei diventato un compagno solerte e silenzioso, benvoluto da amici e da donne, magari avrei avuto una donna per me. Durante un certo periodo avrei dovuto sforzarmi, per sorridere, per salutare, per alzarmi, per fare le mille piccole cose di cui è intessuta la vita terrestre, finché non mi sarei più accorto dello sforzo.

Avrei trovato altri interessi, nuovi lavori. Ma non mi sarei più dato a questi interamente. Non mi sarei dato interamente a nulla e a nessuno, mai più. E forse, di notte, avrei fissato lo sguardo là dove, nel cielo, una nebulosa di tenebre nasconde come una membrana nera lo splendore dei due soli, ricordando tutto, anche quello che stavo pensando adesso, e ricordandolo con un sorriso ironico misto a una stilla di rimpianto per le mie follie e le mie speranze. Non credevo che nel futuro ci sarebbe poi stato qualcosa di migliore del Kelvin che era stato pronto a tutto per un progetto chiamato «Contatto». E nessuno avrebbe avuto il diritto di giudicarlo.

Nella cabina entrò Snaut. Girò gli occhi all’intorno, poi mi guardò. Mi alzai e mi avvicinai al tavolo.

— Volevi qualcosa?

— Mi sembra che tu non abbia niente da fare… — disse con una smorfia. — Potrei darti, sai, certi calcoli; non ne ho bisogno subito, però…

— Ti ringrazio — sorrisi, — non occorre.

— Sei sicuro? — domandò, guardando fuori dalla finestra.

— Sì. Pensavo a varie cose, e…

— Preferirei che tu pensassi un po’ meno.

— Ah, ma non sai a che cosa. Dimmi, tu credi in Dio?

Mi osservò attentamente. — Come? Chi crede, oggi… — scorgevo nei suoi occhi l’inquietudine.

— Non è così semplice — dissi in tono volutamente leggero.

— Non riguarda il Dio tradizionale delle religioni terrestri.

Non sono uno specialista di storia delle religioni, e forse non invento niente. Ma sai, per caso, se ci sia stata mai una fede in un Dio… imperfetto?

— Imperfetto? — ripeté alzando le sopracciglia. — Come lo intendi? In un certo senso il Dio di ogni religione è imperfetto, poiché carico di attributi umani. Il Dio dell’Antico Testamento esigeva il servilismo, pretendeva il sacrificio di vittime, era geloso degli altri dei… Presso i greci gli dei, con le loro beghe e liti in famiglia, erano quasi altrettanto imperfetti degli uomini.

— No — l’interruppi. — A me interessa un Dio nel quale l’imperfezione non derivi dall’ingenuità dei suoi creatori umani, e ne sia invece la principale caratteristica immanente. Dev’essere un Dio, limitato nella sua onniscienza e onnipotenza, che sbaglia nel prevedere il futuro delle proprie opere, e crea un corso di fenomeni che può destare orrore. Questo è un Dio… invalido, che vuole sempre più di quanto può, e che non se ne rende conto subito. Crea gli orologi, ma non il tempo che essi debbono misurare. Sistemi o meccanismi che dovrebbero servire a certi precisi scopi e invece li oltrepassano e li tradiscono. Ha creato l’infinito, che doveva essere la misura della sua potenza, e invece è diventato il metro della sua immane sconfitta.

— Un tempo il manicheismo… — incominciò a dire, titubante, Snaut. Il diffidente riserbo con cui si era rivolto a me negli ultimi tempi era sparito.