D’altra parte, chiunque s’immerga nello studio delle numerose problematiche legate alle costruzioni di Solaris ha l’impressione di trovarsi dinanzi a creazioni intelligenti, e talvolta geniali, mescolate senza ordine e senza scopo a prodotti di una stupidità confinante con l’idiozia. Da ciò è nato, per antitesi, il concetto di «oceano debilitato».
Queste ipotesi riesumavano e resuscitavano uno dei più antichi problemi filosofici: il rapporto tra coscienza, spirito e materia. Occorreva non poco coraggio per parlare, come ha sostenuto per primo Du Haart, di «oceano cosciente». Questo problema, subito classificato come metafisico dai filosofi della scienza, ha costituito da allora il sottofondo di tutte le discussioni e di tutte le controversie. Era possibile il pensiero senza coscienza? Ma… potevano chiamarsi pensiero i processi che si svolgevano nell’oceano? Una montagna è solo una pietra enorme? Un pianeta è una montagna immensa? Si potevano usare quelle definizioni, ma la nuova scala di grandezza faceva emergere nuove forme e nuovi fenomeni.
Il problema era diventato la versione contemporanea della quadratura del cerchio. Ogni pensatore indipendente cercava di portare il proprio contributo alla conoscenza di Solaris.
Fiorivano nuove teorie che sostenevano l’esistenza di uno stato di decadenza, di regressione, succeduto a una stagione alta di «fioritura intellettuale» dell’oceano; in pratica venivano a considerarlo come un tessuto canceroso sviluppatosi dal corpo dei precedenti abitanti del pianeta, che da esso erano stati divorati e assorbiti, fusi in quella forma, eterna e autoriproduttrice, di organismo sopracellulare.
Nella luce bianca fluorescente, che imitava quella terrestre, spostai dal tavolo gli apparecchi e i libri che l’ingombravano, stesi sul suo piano di plastica la mappa di Solaris e la osservai, appoggiando le mani al bordo metallico. L’oceano vivente aveva i suoi alti fondali e le sue fosse; le sue isole, coperte da strati minerali erosi, facevano pensare che fossero state, un tempo, una parte del fondo. Regolava anche l’emergere e l’affondare delle formazioni rocciose immerse nel suo grembo? A questo non c’era risposta.
Osservavo sulla carta gli immensi emisferi, dipinti in diversi toni di viola e di azzurro, e fui sopraffatto, come poche altre volte nella vita, da un senso di stupore, lo stesso di quando, da ragazzo, ero venuto a conoscenza per la prima volta dell’esistenza di Solaris. Non so come, l’ambiente in preda al caos, l’inquietante mistero intorno alla morte di Gibarian, il mio stesso futuro, mi apparivano a un tratto insignificanti e non me ne curavo, immerso nella contemplazione di quell’enigma, sconvolgente per un essere umano.
I punti più interessanti del pianeta vivente portavano il nome dei ricercatori che ne avevano condotto la prima esplorazione. Stavo ispezionando l’affioramento di Texhall che lambisce gli arcipelaghi subequatoriali, quando ebbi la sensazione di uno sguardo posato su di me.
Ero ancora chino sulla mappa, ma già non la vedevo più, ero come paralizzato. La porta, di fronte a me, era barricata dai contenitori, ai quali avevo aggiunto uno stipetto. «Dev’essere un automa» pensai, sebbene non ne avessi trovato alcuno, nella camera, né potesse essere entrato senza essere visto. La pelle della nuca e delle spalle cominciava a scottare, sentivo il peso insopportabile di quello sguardo fisso.
Non mi accorsi che sotto quella pressione mi stavo appoggiando sempre più forte al tavolo, che cominciò a scivolare in avanti. Quel movimento fu una specie di liberazione. Mi girai di scatto.
La stanza era vuota. Dinanzi a me si apriva solo il buio della finestra semicircolare. La sensazione di una presenza non svaniva. Le tenebre mi osservavano, immense, informi, cieche, senza limiti. Nessuna stella rischiarava l’oscurità di là dai vetri. Tirai le tende. Ero alla stazione da meno di un’ora ma cominciavo a capire che vi si verificavano casi di mania di persecuzione. Collegai involontariamente questo pensiero alla morte di Gibarian. Avendolo conosciuto, avevo creduto fino a quel momento che nulla potesse offuscare la sua mente. Non ne ero più molto sicuro.
Ero in piedi accanto al tavolo, nel mezzo della camera. Si calmava l’affanno e sentivo che il sudore della fronte si raffreddava. Che cosa mi era venuto in mente un attimo prima?
Ah, ecco: gli automi. Era molto strano che non ne avessi incontrati. Dov’erano spariti? L’unico col quale, a distanza, avevo avuto un contatto, era la guida automatica per l’assistenza dei voli in arrivo. E gli altri?
Guardai l’orologio. Era ora di tornare da Snaut.
Uscii. Il corridoio era scarsamente illuminato da esili tubi fluorescenti che correvano sul soffitto. Oltrepassai due porte e raggiunsi quella su cui era scritto il nome di Gibarian. Vi sostai a lungo davanti. L’intera stazione era immersa nel silenzio. Afferrai la maniglia. Veramente, non avevo intenzione d’entrare. Ma cedette, e la porta si socchiuse su uno spiraglio dapprima nero, poi si accesero delle lampade. Chiunque fosse passato nel corridoio mi avrebbe notato. Attraversai la soglia di scatto e chiusi la porta alle mie spalle, silenziosamente ma con fermezza. Mi voltai. Stavo con la schiena quasi appoggiata alla porta. La camera era più grande della mia, con una finestra panoramica velata per tre quarti da una tenda celeste a fiorami rosa, probabilmente portata dalla Terra.
Lungo le pareti si alternavano scaffali di biblioteca e stipetti, gli uni e gli altri verniciati di verde chiaro con riflessi metallizzati argentei. Gli oggetti che in precedenza vi erano riposti si trovavano adesso per terra, in cumuli, tra sedie e poltrone.
Due piccoli tavolini a rotelle mi sbarravano il passo, sepolti sotto mucchi di pubblicazioni che i portariviste stracolmi non riuscivano più a contenere. Alcuni libri aperti avevano le pagine macchiate dai liquidi usciti da provette sbreccate e da boccette dai tappi corrosi: recipienti di vetro d’un tale spessore che non si sarebbero rotti per una semplice caduta, anche da notevole altezza. Sotto la finestra c’era una scrivania, ma era stata ribaltata su un fianco e adesso schiacciava una lampada da lavoro, dal lungo braccio snodabile, nei cassetti semiaperti erano incastrate due gambe di uno sgabello.
Una vera marea di carte, di fogli e foglietti manoscritti copriva il pavimento. Riconobbi la scrittura di Gibarian. Nel raccogliere alcuni fogli alla rinfusa, mi accorsi che il mio braccio produceva un’ombra doppia.
Mi voltai. Sembrava che la tenda avesse preso fuoco: avvampava per una linea tagliente d’incandescenza azzurra che si allargava velocemente. Scostai la stoffa e l’incendio abbagliante mi colpì dritto negli occhi.
Il sole occupava un terzo dell’orizzonte. Spingeva via, dinanzi a sé, legioni d’ombre spettrali generate nel cavo delle onde, che si allungavano verso la stazione. Era l’alba. Dopo un’ora di notte, in quella zona sorgeva il sole azzurro del pianeta. Un relais spense le luci del soffitto mentre tornavo ai fogli che avevo lasciato.
Mi capitò sott’occhio la descrizione sommaria di un esperimento progettato tre settimane prima: Gibarian pensava di sottoporre il plasma a un’azione fortissima di raggi X. Capii, dal contesto, che era destinata a Sartorius, il quale avrebbe dovuto provvedere all’attuazione; quella che avevo in mano era una copia. I fogli di carta bianca cominciavano ad abbagliarmi. Il giorno nascente era diverso da quello che l’aveva preceduto. Sotto il cielo arancione del sole meno caldo, l’oceano, tinto di lucentezza sanguigna, era quasi sempre coperto da una caligine rossastra che fondeva in un tutt’uno le onde, le nuvole e il firmamento. Ora tutto ciò era sparito.