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Benché filtrata dalla stoffa a fiorami rosa, quella luce ardeva come una potente lampada al quarzo. Le mie braccia abbronzate parevano grigie. La camera era interamente cambiata, tutto ciò che aveva avuto una sfumatura rossa diventava d’un marrone smorto, color fiele, mentre gli oggetti bianchi, verdi e gialli, ravvivati, sembravano brillare di luce propria.

Socchiudendo gli occhi mi arrischiai a gettare uno sguardo dallo spiraglio delle tende: il cielo era un mare di fuoco bianco; sotto di esso, l’oceano tremolava e si muoveva come metallo fuso. Abbassai le palpebre; nel mio campo visivo si allargavano due cerchi rossi. Sul ripiano del lavandino (che aveva un bordo sbreccato) trovai un paio di occhiali scuri e li infilai; mi coprivano quasi mezza faccia. La tenda della finestra ardeva come una lampada a vapori di sodio. Lessi ancora i fogli, raccogliendoli dal pavimento e disponendoli in ordine sull’unico tavolino non rovesciato. Mancava una parte di testo.

Poi trovai le relazioni sugli esperimenti eseguiti. Ne ricavai che l’oceano era stato sottoposto ai raggi per quattro giorni, in un punto a duemila chilometri a nordest dalla posizione attuale. Rimasi sbalordito, poiché l’uso dei raggi X era vietato dall’ONU per i loro effetti letali, ed ero assolutamente sicuro che nessuno avesse trasmesso alla Terra una richiesta di autorizzazione per quel genere di esperimenti. A un certo punto, alzando il capo, vidi la mia immagine nello specchio di un’anta socchiusa, un viso cereo con gli occhiali scuri.

Anche la camera era strana, tutta riflessi bianchi e azzurri.

Dopo qualche minuto si udì un cigolio prolungato, perché all’esterno le saracinesche a chiusura ermetica si abbassavano sulla finestra; l’interno si oscurò e si accese una luce artificiale, stranamente pallida. Ora la temperatura cominciava ad aumentare, nonostante il normale ronzio dei condizionatori fosse salito fino a un miagolio. L’impianto di raffreddamento della stazione lavorava a pieno regime. Tuttavia l’opprimente calore cresceva.

Udii un rumore di passi. Qualcuno avanzava nel corridoio.

In due salti silenziosi fui dietro la porta. I passi rallentarono e si fermarono. Il nuovo venuto era adesso immobile al di là dell’uscio. La maniglia si abbassò piano; senza pensarci, automaticamente, la afferrai dalla mia parte e la fermai. Lo sforzo non aumentò, ma nemmeno diminuì. Anche quel «qualcuno» dall’altra parte della porta restava in silenzio, forse sconcertato. Tenemmo la maniglia per un bel po’. Poi a un tratto mi scattò in mano e si rialzò silenziosamente, e un rumore lieve che si spegneva mi disse che l’altro se n’era andato. Rimasi ancora ad ascoltare, ma tutto era silenzio.

3. GLI OSPITI

Piegai in quattro, frettolosamente, gli appunti di Gibarian e li misi in tasca. Mi avvicinai lentamente al guardaroba e guardai dentro: le tute e gli altri capi di vestiario erano schiacciati e pressati in un angolo, come se qualcuno vi si fosse nascosto. Da sotto un monte di carte, sul pavimento, spuntava l’angolo di una busta. La raccolsi. Era indirizzata a me. La aprii col cuore in gola e mi costò un enorme sforzo spiegare il foglietto contenuto.

Con la sua scrittura regolare, estremamente piccola ma leggibile, Gibarian aveva annotato:

«Ann. Solar.» vol. 1, Appendice. Cfr. «Vot Separat.»

Messenger sul caso E, in Ravintzer, «Piccolo apocrifo».

Tutto qui, non una parola di più. L’andamento dei caratteri testimoniava la fretta. Era un’annotazione di una certa importanza? Quando l’aveva scritta? Dovevo raggiungere al più presto la biblioteca. Conoscevo quell’Appendice del primo Annuario di Solaristica o, meglio, sapevo della sua esistenza, senza però averla mai letta, poiché aveva un valore eminentemente storico. Di un certo Ravintzer o del suo Piccolo apocrifo non sapevo nulla, nemmeno per sentito dire.

Che fare?

Ero già in ritardo di quasi un quarto d’ora. Ancora una volta, dalla porta, girai lo sguardo all’intorno, per la stanza. Soltanto allora notai il letto, fissato verticalmente contro la parete e mascherato da una grande mappa di Solaris srotolatagli davanti. Dietro la carta pendeva qualcosa. Un registratore tascabile, nel suo astuccio. Estrassi l’apparecchio e riappesi l’astuccio, il registratore lo misi in tasca. Guardai il contatore: il nastro era quasi completamente inciso.

Giunto di fronte alla porta, mi fermai per un secondo, cercando di concentrarmi su qualsiasi rumore, nel silenzio imperante all’esterno. Niente. Aprii la porta e il corridoio mi parve un antro nero; appena mi tolsi gli occhiali, però, vidi la debole luce che veniva dal soffitto. Chiusi la porta alle mie spalle e mi diressi verso sinistra, dove si trovava la cabina radio.

Mi trovai in un locale circolare dal quale partivano a raggiera alcuni corridoi e, nell’oltrepassare la sala comune dei bagni, scorsi una forma grande e oscura, confusa nella penombra. Mi fermai come impietrito. Dal fondo di quel corridoio laterale avanzava a passo lento, dondolante, un’immensa donna di pelle nera. Intravidi il balenio del bianco dell’occhio e quasi contemporaneamente udii lo schiocco lieve dei suoi piedi scalzi. Indossava solo un gonnellino di paglia intrecciata, che aveva un bagliore giallo; i seni enormi ondeggiavano liberi e le braccia scure erano grosse come la coscia di un uomo. Mi incrociò senza degnarmi di uno sguardo, alla distanza di circa un metro, e proseguì dimenando il gonnellino di paglia, simile alle sculture neolitiche che si vedono talora nei musei di antropologia. Alla curva del corridoio svoltò e sparì nella cabina di Gibarian. Per un attimo, sulla soglia, la sua sagoma si stagliò nettamente, delineata sulla luce più intensa che si accese all’interno.

La porta si chiuse silenziosamente; tornai a essere solo.

Con la mano destra afferrai il pugno della sinistra e lo strinsi con forza, fino a far scricchiolare le giunture. Mi guardai attorno intontito. Che cos’era successo? Che cosa avevo visto?

Bruscamente, come uno schiaffo, mi colpì il ricordo degli ammonimenti di Snaut. Che cosa significava? Chi era quella Venere mostruosa? Da dove proveniva?

Feci un passo, uno solo, verso la cabina di Gibarian, e mi fermai di colpo. Sapevo bene che non sarei entrato. Con le narici allargate, inspirai l’aria. Qualcosa non andava, qualcosa non quadrava… Ah! Inconsciamente mi ero aspettato di sentire l’afrore caratteristico del suo sudore, ma in verità non l’avevo percepito, nemmeno quando mi era passata vicino.

Non so per quanto tempo rimasi fermo, appoggiato al metallo freddo della paratia. La stazione era immersa nel silenzio, l’unico rumore era sempre quello, monotono, dei compressori del condizionamento d’aria.

Mi diedi un leggero schiaffo a mano aperta sul viso e lentamente mi diressi alla cabina radio. Quando abbassai la maniglia, udii una voce forte: — Chi è?

— Sono io, Kelvin.

Snaut era seduto alla scrivania, tra una pila di cassette d’alluminio e la stazione trasmittente, e mangiava carne in scatola, direttamente dal barattolo. Mi chiesi perché avesse eletto a proprio domicilio la cabina radio.

Stavo fermo davanti alla porta, guardando intontito il movimento regolare delle mascelle di Snaut, quando mi accorsi di avere fame anch’io. Mi avvicinai agli stipetti, cercai un piatto meno impolverato degli altri, presi a mia volta una scatola di carne e sedetti di fronte a lui. Allora Snaut si alzò, recuperò un thermos da uno scaffale a muro e versò un bicchiere di brodo caldo a testa. Posò il thermos per terra, poiché sulla tavola non c’era posto, e domandò: — Hai visto Sartorius?

— No, dov’è?

— Su, di sopra.