Gordon R. Dickson
Soldato, non chiedere!
I
Ero arrivato a S. Maria e, uscendo dalla nave spaziale di linea, percepii la differenza di pressione per un lieve soffio d’aria alle mie spalle, come se una mano, dall’oscurità dietro di me, mi spingesse verso una giornata cupa e piovosa. Il trench da reporter mi proteggeva e il freddo pungente e umido mi avviluppava senza però penetrarmi nelle ossa. Mi sentivo come la nuda spada dei miei antenati, avvolta e nascosta in un caldo tessuto, affilata sulla roccia e trasportata infine sul luogo dell’incontro per il quale era stata tenuta in serbo per più di tre anni.
Un incontro nella fredda pioggia primaverile. Mi colpiva, sulle mani, gelida come sangue ormai secco, e sulle labbra, senza sapore. Il cielo era minaccioso, le nuvole venivano sospinte verso est e la pioggia cadeva incessantemente.
Era come un rullo di tamburi che mi accompagnava mentre scendevo la scaletta, un suono prodotto dalla moltitudine di gocce nell’impatto con il duro cemento che, da quel punto e in tutte le direzioni, si estendeva senza interruzione coprendo la terra, nudo e pulito come l’ultima pagina di un libro contabile prima del bilancio finale. In fondo, davanti a me, il terminal dello spazioporto si ergeva come un’immane e unica pietra tombale. La cortina d’acqua che ci separava era ora più spessa, ora più sottile, come il fumo nella battaglia, ma non lo nascondeva completamente alla mia vista.
Era la stessa pioggia che puoi trovare in tutti i posti su qualsiasi mondo. Così mi ricordavo quella di Atene, su Vecchia Terra, quando ero solo un ragazzo e vivevo nella cupa e infelice casa dello zio a cui ero stato affidato dopo la morte dei miei genitori; era accanto alle rovine del Partenone e io guardavo il mondo, e la pioggia, dalla finestra della mia camera.
Continuavo a scendere e, alle mie spalle, sentivo ancora il suono, come una percussione costante sulla nave che mi aveva trasportato attraverso le stelle, da Vecchia Terra a questo pianeta, secondo fra i Mondi più piccoli, simile al mio, ma sotto i Soli di Procione. Il martellamento suonava vuoto sulla valigetta contenente le mie Credenziali, che stava scivolando sul nastro trasportatore vicino alla scaletta. Né la valigetta, né i documenti e le Credenziali di Imparzialità che avevo ormai da sei anni, e per le quali avevo lavorato tanto, significavano qualcosa per me in quel momento. La mia mente era interamente concentrata sul nome dell’uomo che avrei dovuto incontrare al punto consegna autoveicoli, in fondo allo spazioporto. Ero ansioso di scoprire se si trattava veramente dell’uomo che i miei informatori terrestri mi avevano segnalato. E se non avevano mentito…
— Il bagaglio, signore?
Fui risvegliato dai miei pensieri e distolto dal ritmo della pioggia; avevo raggiunto il terreno di cemento. L’addetto allo sbarco mi stava sorridendo. Era più vecchio di me, ma sembrava più giovane. Mentre sorrideva, gocce d’acqua cadevano come lacrime dalla visiera marrone del suo berretto sul foglio di riscontro che aveva in mano.
— Mandatelo al presidio degli Amici — dissi. — Prendo con me solo la valigetta delle Credenziali.
La presi dal nastro trasportatore e mi avviai all’uscita. L’uomo che, con la relativa uniforme, mi aspettava per consegnarmi la prima vettura della fila, corrispondeva alla descrizione fattami.
— Nome, signore? — chiese. — Motivo della visita a S. Maria?
Se io avevo una sua descrizione, anche lui doveva averne una mia, ma volevo trattare la faccenda con tatto.
— Tam Olyn — dissi. — Cittadino di Vecchia Terra e rappresentante della rete giornalistica Interworld. Sono qui per un servizio sul conflitto fra Amici ed Esotici. — Aprii la valigetta e gli mostrai i documenti.
— Bene, Signor Olyn. — Me li riconsegnò, intrisi d’acqua. Si voltò per aprire la vettura al suo fianco e impostare il pilota automatico. — Segua l’autostrada fino alla città di S. Giuseppe. Non appena raggiunge i sobborghi, metta il pilota automatico e la macchina la porterà al presidio degli Amici.
— Bene — dissi. — Solo un minuto.
Si voltò di nuovo e mi accorsi che aveva un viso giovane e cordiale, con un accenno di baffi; gli occhi luminosi mi guardavano senza espressione. — Signore?
— Mi aiuti a salire in auto.
— Mi dispiace, signore. — Arrivò in tutta fretta. — Non mi ero accorto della sua gamba.
— L’umidità la rende più rigida — dissi. Sistemò il sedile di guida e potei mettere la gamba sinistra a fianco del volante. Fece per andarsene.
— Un momento — ripetei. Ero spazientito. — Lei è Walter Imera, vero?
— Sì — disse in un soffio.
— Mi guardi; se non sbaglio, lei ha qualche informazione per me!
Si voltò lentamente per potermi vedere chiaramente, sempre senza espressione.
— Si sbaglia, signore.
Lo fissai per un lungo istante, aspettando.
— Bene — aggiunsi, allungando il braccio verso la portiera. — Penso che si renderà conto che otterrò quelle informazioni comunque, e che crederanno ugualmente che sia stato lei a fornirmele.
I sottili baffi sembrarono di colpo tinti.
— Aspetti — disse.
— A che scopo?
— Senta — disse — deve capire. Questo genere di informazioni non possono far parte dei suoi resoconti… e io ho famiglia.
— Io non ce l’ho — replicai, senza provare alcuna compassione per lui.
— Ma lei non capisce, mi uccideranno. È così che funziona oggi l’organizzazione, il Fronte Azzurro, qui a S. Maria. Che cosa vuole sapere su di loro? Non ho capito quello che lei…
— Bene — dissi, raggiungendo la portiera.
— Aspetti. — Sollevò un braccio sotto la pioggia, nella mia direzione. — Come posso essere sicuro che lei non mi esporrà, se le dico quello che so?
— Potrebbero tornare al potere qui, un giorno o l’altro — dissi. — Neanche i gruppi politici illegali vogliono inimicarsi la rete giornalistica interplanetaria. — Iniziai a chiudere la porta.
— Bene — disse velocemente — bene. Vada a Nuova San Marco, da Wallace, il gioielliere. Si trova subito dopo S. Giuseppe, dove lei si sta recando. — Si inumidì le labbra. — Farà il mio nome?
— Lo farò. — Lo fissai. Sopra al bordo del colletto dell’uniforme blu, dalla parte destra del collo, si intravedeva una bella catena d’argento, che spiccava sulla pelle pallida del dopo inverno. Probabilmente, c’era un crocefisso attaccato, sotto la camicia. — I soldati Amici sono qui ormai da due anni. Come vengono accettati dalla popolazione?
Fece una smorfia, mentre riprendeva colore.
— Come qualsiasi altro — disse. — Bisogna solo capire quali sono i loro modi.
La ferita alla gamba iniziò a farmi male, esattamente nel punto in cui, tre anni prima, i dottori di Nuova Terra avevano estratto l’ago.
— Certo, bisogna capirli — dissi. — Chiuda la porta.
La chiuse e partii.
C’era una medaglia di San Cristoforo sul quadro comandi della vettura. Un soldato Amico l’avrebbe strappata e gettata via, o si sarebbe rifiutato di prendere la macchina. Per questa ragione, mi faceva particolarmente piacere lasciarla al suo posto, anche se per me non aveva alcun significato. Non lo facevo solo per Dave, mio cognato, e per gli altri prigionieri che loro avevano ucciso su Nuova Terra, ma anche perché quello era uno di quei doveri che contengono piccoli frammenti di piacere. Una volta perse le illusioni dell’infanzia e rimasti solo i doveri, anche il minimo piacere è il benvenuto. I fanatici, dopotutto, non sono peggiori dei cani impazziti.
Ma i cani impazziti vanno soppressi; è semplice e logico.