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Il ciccione spinse e la serranda tornò su. Che Zhukanov provasse pure a riabbassarla. Se ne aveva il coraggio.

Il russo tenne duro. Il fetore non era solo nell’alito del ciccione, lo emanava da tutto il corpo. Un mucchio di immondizie ambulante.

«L’hai visto?»

«Vattene, stronzo.»

Ora fu il volto del ciccione ad arrossire. Strabuzzò gli occhi porcini. La saliva gli ribollì agli angoli della bocca. Lo spettacolo che offriva mitigò la collera di Zhukanov, trasformandola in una sensazione calda e confortevole. Cominciava a divertirsi. Rise. «Stupido pezzo di merda», disse.

Il grassone produsse un gorgoglio cupo come una flatulenza e Zhukanov attese il nuovo insulto, pronto a rimbeccarlo, a ridere in faccia al bastardo.

Ma il grassone non disse una parola. Più veloce di quanto avrebbe creduto possibile, allungò la mano enorme e lo afferrò per il collo, trascinandolo contro il banco con un colpo così violento che temette di essersi fratturato qualche costola. Si dibatté inutilmente quasi accecato dal dolore.

L’altra mano del grassone partì a pugno chiuso per un cazzotto da sgretolargli tutte le ossa della faccia. Zhukanov riuscì a schivare il colpo, ma la mano intorno al collo continuava a stringere e, fra i versacci e le imprecazioni del suo avversario, cominciò a sentire di non poter più respirare. L’Ocean Front era deserto, al buio, rimanevano solo le onde, nessuno in giro a vedere quel mostro che lo strangolava a morte… Nessuno oltre ai giudei, a qualche decina di metri da lui, a intonare le loro orazioni da assassini di Cristo. Figurati se lo avrebbero mai aiutato.

Cercò di strapparsi dal collo la mano che lo strozzava, ma le sue erano viscide di sudore, troppo indebolite e anche il braccio del ciccione era unto e non trovò un appiglio. Mentre scivolava annaspando il suo campo di visuale si riduceva a un punticino di luce, vide ancora il volto alterato del grassone e un altro pugno in arrivo.

Uno spasmo di panico gli salvò la faccia, ma il colpo lo raggiunse alla testa, forte abbastanza da fargli tremare il cervello nel cranio. Per qualche istante ancora continuò a gesticolare inutilmente, poi ricordò il coltello, quando stava ormai per perdere conoscenza.

La tasca. Quella anteriore. A sinistra per un’estrazione fulminea, come gli avevano insegnato nelle esercitazioni di corpo a corpo. Il grassone cominciò a scuoterlo più forte, trovando energie nell’espressione di dolore e terrore sul viso di Zhukanov, e non si accorse della mano del russo che scendeva alla tasca.

Zhukanov frugò, lo trovò, lo afferrò troppo in basso. Metallo freddo, una puntura, frugò ancora, finalmente avvertì il tepore del legno.

Spinse la lama dal basso verso l’alto. Poche forze, un affondo labile, non più di una punturina da femminuccia e…

Doveva essere andato a vuoto, perché il ciccione lo stava strangolando ancora, e imprecava… gorgogliava. Poi smise di scuoterlo.

Ora il bastardo non ringhiava più.

Un’espressione di sorpresa. Le labbra tremanti aperte in una minuscola O.

Come a dire: «Oh!»

Dov’era il coltello?

A un tratto la mano che gli stringeva la gola si aprì e un flusso d’aria nella trachea lo fece rantolare e rigurgitare. Finalmente si rese conto che respirava di nuovo, ma la gola gli bruciava come se qualcuno l’avesse usata come imbuto per travasare liscivia.

Il ciccione non era più davanti a lui. Si era accasciato sul banco, con le braccia penzoloni.

Dov’era il coltello?

Scomparso. Perdeva tutto. Doveva essere colpa della vodka.

Poi scorse il lento fluire di liquido rosso da sotto la spalla del bestione. Non un fiotto, non un getto arterioso, solo un pigro colare. Come una di quelle maree d’estate quando le onde si addolciscono.

Lo afferrò per i capelli e gli sollevò il testone.

Aveva ancora il coltello conficcato nel collo, a pochi millimetri dal pomo d’Adamo, inclinato all’ingiù. Recisione diagonale attraverso giugulare, trachea, esofago, ma la forza di gravità risucchiava il sangue all’interno delle cavità corporee.

Panico. E se qualcuno aveva visto?

Come quel ragazzino al Griffith Park, che guardava pensando di essere protetto dalle tenebre.

Ma non c’era nessuno. Solo quell’enorme pezzo di merda defunta e Zhukanov che gli reggeva la testa.

Un cacciatore con un trofeo. Per la prima volta da molto tempo Zhukanov si sentì potente, territoriale, un lupo siberiano.

L’unico inconveniente era rappresentato dalle dimensioni del bastardo che adesso avrebbe dovuto trasportare da qualche parte.

Lasciò ricadere la testa, spense le luci nel baracchino, controllò il taglio alla mano, un graffietto, volteggiò al di là del bancone e scrutò la passeggiata in tutte le direzioni.

La finestra della chiesa dei giudei era una macchia multicolore accesa nel buio, ma nessuno sporco ebreo in strada. Non ancora.

Sfilò il coltello e lo asciugò nel fazzoletto. Poi fece scivolare il cadavere per terra. Pulì il sangue dal bancone e infilò il fazzoletto nella ferita al collo. Dovette compattarlo in una pallina, perché lo squarcio era lungo solo pochi centimetri.

Taglio piccolo ma efficace. Lama di dimensioni modeste. Era stata l’angolazione a favorirlo. Il ciccione era tutto proteso in avanti nel tentativo di strozzarlo, Zhukanov aveva spinto seppure molto debolmente dal basso verso l’alto e tutto a un tratto il peso del suo avversario aveva rovesciato la sua traiettoria, forzando il coltello a penetrargli nella gola e a recidere tutto quello che trovava sul suo passaggio.

Assicuratosi che il tampone fosse ben inserito, Zhukanov prese fiato e si preparò all’impresa più ardua. Madre di Dio, che male aveva al collo. Sentiva che cominciava a gonfiarsi intorno alla scollatura della maglietta e diede uno strattone, strappando l’elastico. Si sentì un po’ meglio, ma gli rimase addosso la sensazione che il grassone lo stesse strangolando.

Un’altra occhiata all’intorno. Buio, silenzio, adesso gli mancava solo che quei vecchi israeliti venissero fuori.

Okay, andiamo.

Afferrò il ciccione per i piedi e cominciò a tirare.

Riuscì a spostarlo di un paio di centimetri e avvertì una fitta terribile nella zona lombare.

Come trascinare un elefante. Flette le ginocchia e riprovò. Un altro avvertimento vertebrale, ma continuò lo stesso, perché non aveva scelta.

Gli ci volle un’eternità per spostarlo di qualche metro perché non fosse più visibile dalla promenade e a quel punto era ridotto a un bagno di sudore, sfiatato, con tutti i muscoli a fuoco.

Poi udì le voci. I giudei che uscivano.

Tirò, trascinò, ansimò, strattonò, trascinò, ansimò, nel disperato tentativo di guadagnare ancora qualche metro. Aveva tolto tutte le tracce di sangue dal bancone?

Tornò indietro di corsa, trovò altre macchie, usò la camicia, spense le luci e abbassò precipitosamente la serranda.

Ora sentiva le loro voci vecchie blaterare più forte.

Aveva trasportato il cadavere fin quasi dietro il baracchino. Si fermò quando i suoi polmoni protestarono. Piegò di nuovo le ginocchia, riprese a tirare.

Strattone, respiro.

Quando raggiunse finalmente il vicolo, sentiva solo lo sciacquio dell’oceano, niente voci. Tutti gli ebrei se ne erano tornati a casa.

Trascinò il cadavere contro le casse per i rifiuti prodotti dal baracchino. Non un cassonetto vero e proprio, perché il vecchio era troppo tirchio. Due casse da imballaggio che certi immigrati clandestini messicani svuotavano tutte le settimane per dieci dollari.

Bene… e adesso?

Mollalo lì, dov’è nascosto abbastanza bene nel buio, vai a prendere la macchina, caricacelo sopra e va a buttarlo in qualche discarica. Dov’era quella utilizzata dagli abitanti di West Hollywood? Angeles Crest Forest, gli pareva. Aveva un’idea solo vaga di dove fosse, ma l’avrebbe trovata.

Un’altra foresta. Se suo padre lo avesse visto ora.