«Sì, signor Ganzer, ma non ho molta fame.»
«Come puoi non aver fame?»
«Non lo so, non ne ho.»
«Non sei abituato a mangiare molto, vero?»
«Me la cavo.»
«Da quanto tempo sei in giro da solo?»
«Da un po’.»
«Va bene, va bene, non voglio fare l’impiccione. Lo faccio scongelare e lo cucino arrosto. Così è più sano.»
Alle sette e venti il pollo è pronto e io mangio più di quanto avrei pensato. Poi noto che Sam non ha praticamente toccato la coscia che si è messo nel piatto.
«Guardi che ha bisogno di proteine, signor Ganzer.»
«Molto divertente», dice lui. Però sorride. «Da questo lato per questa sera io sono già a posto. Ho un appuntamento per cena. Nessun problema restare solo a casa?»
«No. Sono abituato.»
Lui aggrotta la fronte, posa la coscia sul mio piatto, si alza. «Non so a che ora torno. Probabilmente alle dieci, dieci e mezzo. Di solito sono io a fare gli onori di casa, ma ho pensato che non ti andava di vedere altra gente. Giusto?»
«La casa è sua. Io posso restare in camera.»
«Che cosa? Nascosto come… No, vado io. Se hai bisogno di me, sono sei case più giù, quella bianca con i bordi blu. Il nome è Kleinman. Signora Kleinman.»
«Si diverta», gli dico.
Lui si colorisce un po’. «Senti, Bill, ci ho pensato. Quei venticinquemila. Se ti spettano di diritto, è giusto che li pretendi. Sono molti soldi per chiunque. Io posso assicurarmi che nessuno cerchi di soffiarteli. Qui di fronte abita una persona che conosco, una volta era avvocato. Un comunista, ma in gamba. Conosce vie maestre e scorciatoie. Non ti prenderebbe un centesimo e potrebbe garantire che tu sia protetto…»
«Nessuno può proteggermi.»
«Perché dici così?»
«Perché nessuno l’ha mai fatto.»
«Ma, guarda…»
«No», dico io. «È impensabile che permettano a un bambino di tenere per sé tutto quel denaro. E io non li posso aiutare comunque, non ho visto in faccia quell’uomo. Ho visto solo una targa…»
«Una targa? Bill, potrebbe essere un elemento molto prezioso. Hanno dei sistemi per risalire al proprietario di un veicolo partendo dalla targa.»
«No!» grido. «Nessuno ha mai fatto niente per me e a me non importa niente di nessuno. E se secondo lei questo fa di me un cattivo cittadino e non mi vuole in casa sua, mi sta bene, me ne vado!»
Mi alzo e corro alla porta. Lui mi afferra per il braccio. «Ehi, ehi, calma, figliolo, non è il caso…»
«Mi lasci andare…»
Ubbidisce. Arrivo alla porta, vedo la spia rossa dell’allarme, mi fermo. Ecco che mi ricomincia il mal di pancia.
«Per piacere, Bill, rilassati.»
«Sono rilassato.» Ma è una bugia. Ho il respiro affannato e una tensione davvero terribile nel petto.
«Senti, ti chiedo scusa», dice lui. «Lasciamo perdere, avevo solo pensato… Tu sei evidentemente una brava persona e alle volte quando una brava persona non fa la cosa giusta, si sente… ah! Che cosa diavolo mi viene in mente di pontificare in questo modo? Tu sai che cosa devi fare.»
«Io non so niente», mormoro.
«In che senso?»
«Ogni volta che cerco di imparare, qualcosa si mette in mezzo. Come è successo a lei con la guerra.»
«Ma guarda tu stesso, ce la stai facendo. Come ce l’ho fatta io.»
Ho di nuovo voglia di piangere, ma non lo faccio, assolutamente non se ne parla! Mi vengono fuori parole a mitraglia: «Non so che cosa devo fare signor Ganzer. Forse dovrei chiamare la polizia. Forse lo farò da un telefono pubblico, gli dico la targa e riappendo».
«Ma se fai così, come fai a incassare la ricompensa?»
«Non ci voglio pensare, alla ricompensa, non mi darebbero mai quei soldi. E anche se lo facessero, mamma lo scoprirebbe e poi Moron… che sarebbe il tizio che vive con lei. È per lui che sono scappato. I soldi finirebbero a lui, mi creda, a me non resterebbe nemmeno un centesimo e mi ritroverei al punto di partenza.»
«Moron? Come ritardato?» Si batte l’indice sulla fronte.
Io rido. «Sì.»
Ride anche lui. Io rido più forte. Non sono veramente felice, ma è un modo per sfogarsi.
«Un ragazzino sveglio come te e un deficiente», commenta lui. «Capisco che qualche problema era inevitabile… Va bene, ti do il codice dell’allarme. Giusto nel caso tu voglia uscire per una boccata d’aria. Uno uno venticinque. Pensa al primo gennaio millenovecentoventicinque. La mia data di nascita. Sono un bimbo di Capodanno.»
«Non uscirò.»
«Non si sa mai.» Schiaccia i numeri, si accende la spia verde e apre la porta. «Rilassati, riposati… prova le aringhe.»
«Fossi matto», gli rispondo e lui esce sorridendo.
La scacchiera è rimasta fuori. Credo che sperimenterò mosse diverse. Guardando la situazione da entrambi i punti di vista.
68
Il telefono svegliò Petra alle 6.46 di sabato mattina. La voce di Schoelkopf sconquassò le sue onde cerebrali.
«Ho i mandati per la perquisizione completa dell’ufficio e dell’abitazione di Balch. Voglio che tu e Fournier ci andiate armati di pettine a denti fini prima di spiccare un mandato di cattura. Ti ho spedito i documenti e le chiavi, dovrebbero arrivarti a minuti. Che sia fatto tutto entro oggi, così possiamo gettare la rete per prendere quel bastardo.»
«Perché dobbiamo aspettare per gettarla?»
«Perché è così che vogliono quelli che contano, Barbie. Non si sono ancora riavuti dalla strizza che gli ha preso per il rischio corso di incriminare ingiustamente Ramsey. Basta con le domande, adesso. Datti da fare.»
«Fournier è informato?»
«Lo informi tu.»
Il campanello della porta squillò nel momento in cui usciva dalla doccia. Si asciugò in fretta e furia, si coprì con un telo da bagno, corse all’ingresso, vide un agente della Mobile attraverso lo spioncino e infilò la mano in uno spiraglio per farsi consegnare la busta con i mandati e le chiavi. L’agente in divisa non seppe trattenere un sorrisetto malizioso, la osservò con un certo interesse e le comunicò che c’era un modulo da firmare.
«Me lo infili sotto la porta.» Dopo che te l’ho sbattuta in faccia.
Svegliò Wil alle sette e un quarto. Aveva una voce da oltretomba e le parve di udire una donna in sottofondo.
«D’accordo», le disse. «Da dove cominciamo?»
«Scegli tu.»
«L’ufficio è più vicino. Facciamo… alle nove? Forse è meglio alle nove e mezzo.»
«Vuoi che ti passi a prendere?»
Non rispose subito. C’era sicuramente una donna a casa sua, parlava a voce bassa e cadenzata, quasi cantando. «No», decise Wil. «Ci vediamo là.»
Senza traffico, il tragitto a Studio City si risolse in un quarto d’ora di brezza mattutina ed ebbe anche il tempo di fermarsi a DuPars vicino a Laurel a comperare un caffè e un tortino alle mele. Nello spiazzo davanti alla costruzione marrone c’era un’Acura grigia con nessuno a bordo. La targa era SHERRI. Parcheggiò di fianco all’Acura e stava mangiando in macchina quando Wil arrivò a bordo della sua Toyota nera. Indossava un completo di lino écru, polo nera, scarpe nere traforate; sembrava in partenza per un fine settimana a Palm Springs. Lei era vestita come sempre.
Wil contemplò la palazzina. «Che stamberga.»
«Ramsey vive come un re ma lo trattava come un servo della gleba. Forse a un certo punto è esploso.»
«Non sapevo che fossi psicologa», la apostrofò lui. «In effetti è un’ipotesi più che valida.»
«Vuoi qualcosa di più? Mi è venuto in mente ieri sera. Il fatto che il corpo di Lisa sia stato lasciato dov’era, nessun tentativo di occultarlo. Lo stesso con Ilse Eggermann. Sembra quasi spacconeria, da parte sua: guarda che cosa posso fare in barba a tutti quanti. Per tutta la vita Balch subisce Ramsey, ingoia rospi, ogni sorta di umiliazione verbale. Quale modo migliore di riscattarsi psicologicamente se non prendersi la donna di Ramsey per poi ucciderla e annunciarlo al mondo intero?»