Sedette più eretta torcendo il fazzoletto tra le mani. «Poi un sabato si presentò alla nostra casa di Arrowhead. Avevamo ospiti, soci in affari di suo padre, e Bill era molto imbarazzato per l’aspetto di Billy. Mio figlio non se ne accorse neppure. Era venuto a parlare con me. Entrò nella mia stanza di notte con una candela. L’accese e disse che era venuto il momento della sua confessione. Poi mi raccontò di avere avuto una relazione con una ragazza di Delano, un’immigrata, molto giovane, minorenne. L’aveva messa incinta. O così aveva sostenuto lei. Billy non aveva mai visto il bambino, perché quando lei gli aveva dato la notizia si era fatto prendere dal panico perché era un avvocato. Data l’età della ragazza, sapeva bene che per la legge aveva commesso un reato, uno stupro. Lo preoccupava soprattutto che qualche agricoltore lo scoprisse e se ne servisse contro il sindacato. Invece di affrontare di petto le sue responsabilità, diede alla ragazza tutti i dollari che aveva con sé e lasciò la città. Fu allora che andò a lavorare al pubblico patrocinio. Ma il senso di colpa non smise di tormentarlo, cosicché cominciò a girare la California in cerca della ragazza. Disse che si chiamava Sharia, né istruita, né intelligente, ma di buon cuore. Non la trovò mai.
«’Ma guardiamoci in faccia, mamma’, mi disse. ‘Se avessi voluto rintracciarla davvero, l’avrei trovata, no? Io non sono sicuro di voler sapere… Papà ha ragione, sono un vigliacco, un uomo senza spina dorsale. Un uomo inutile.’ Gli risposi che il fatto stesso che raccontava tutto a me in quel momento dimostrava il suo estremo coraggio. Aveva ancora la possibilità di rimediare. Gli promisi che avrei fatto tutto il possibile per aiutarlo a trovare la ragazza, a prendere provvedimenti per il mantenimento del figlio. Se un figlio c’era perché io ero scettica, pensavo che la ragazza avesse cercato di incastrarlo. S’infuriò. Cominciò a picchiare pugni sul letto, gridò che io ero come tutti gli altri, riducevo tutto a una questione di soldi e nient’altro che soldi. Poi soffiò sulla candela e se ne andò ancora profondamente alterato. Io non lo avevo mai visto in quello stato e ne ero rimasta molto turbata. Pensai di dargli tempo di calmarsi. La mattina dopo fu ritrovato nelle acque del lago Arrowhead. Dissero che era stato un incidente. Io non cercai mai la ragazza. Non sono mai stata sicura che in quella storia ci fosse del vero. Era un dubbio che mi faceva compagnia riaffiorando di tanto in tanto… fino al giorno in cui ho visto l’identikit sul giornale. Allora ho saputo. E ora l’ho trovato, detective Connor.»
Petra osservò ancora per qualche istante la fotografia e gliela restituì. Erano troppi gli elementi che collimavano perché potesse essere solo una coincidenza e la cronologia corrispondeva. William Bradley Adamson, William Bradley Straight.
«Che cosa vuole che faccia per lei, signora Adamson?»
«Detective, io non so se ho il diritto di… Forse legalmente, ma moralmente… Però c’è questo bambino. Deve essere mio nipote. Non c’è altra spiegazione razionale. Sono sicura che possiamo provarlo con un test del DNA. Ma non ora, non dopo tutto quello che… Io voglio… aiutarlo.»
All’improvviso abbassò gli occhi.
«Non ho più le risorse di un tempo. Mio marito è incorso in… in una serie di disavventure prima di lasciarci.»
Petra annuì in uno spontaneo gesto di compassione.
«La verità», riprese Cora Adamson evitando ancora il suo sguardo, «è che da anni vivo dei miei risparmi, ma sono una brava amministratrice e in nessun modo potrei essere classificata come povera. L’aver appreso di Billy, questo Billy, mi ha schiarito le idee. Vivo in una casa di dimensioni grottesche che da tempo meditavo di vendere. Finora mi è mancato l’incentivo e la forza di volontà per operare questo cambiamento. Ora mi è tutto chiaro. La casa non è ipotecata. Il denaro che posso ricavare vendendola, al netto delle tasse, dovrebbe essere sufficiente a garantire un ragionevole tenore di vita per me e mio nipote.»
Nella sua voce era affiorata un’inflessione supplichevole. Chanel o no, si appellava a Petra nel rivendicare i suoi diritti di parentela. Che cosa dire?
Cora Adamson rialzò la testa. «Forse è meglio che sia andata così. L’eccesso di privilegi ha le sue specifiche controindicazioni.»
Petra avrebbe voluto obiettare, invece annuì.
«Io amo i bambini, detective Connor. Prima di sposarmi, insegnavo. Ho sempre desiderato molti figli, ma il parto di Billy fu difficile e i medici mi vietarono di riprovarci. A parte la perdita di Bill e dei miei genitori, non potere avere altri figli fu l’esperienza più dolorosa che ho dovuto affrontare nella mia vita.»
Un’esile mano bianca le afferrò la manica. «Quello che sto dicendo è che credo sinceramente di avere qualcosa da offrire. Non cerco giustificazioni per non aver… Detective Connor, pensa di potermi aiutare?»
La guardava diritto negli occhi. Ansiosa, disperata.
E Delaware sarebbe rientrato in città solo quella sera. Perché non era lì adesso?
«La prego», mormorò Cora Adamson.
«Parliamone», disse Petra.
82
Ieri il dottor Delaware mi ha detto di mamma. La pancia mi ha preso fuoco e volevo strapparmi la flebo e prenderlo a pugni.
Lui se ne stava seduto lì con l’aria triste. Che diritto aveva di essere triste, lui?
Mi sono girato dall’altra parte e non l’ho più guardato. Mai mi sarei lasciato vedere a piangere da lui, ma appena se n’è andato, non ho potuto trattenermi e ho continuato a piangere per tutto il giorno e la notte. Eccetto quando entrava qualcuno nella mia stanza, allora facevo finta di dormire.
Ogni tanto, quando pensavano che dormissi, discutevano di me, le infermiere, i medici.
Povero ragazzo.
Che spaventosa avventura.
Piccolo ma tosto.
lo non sono affatto tosto. Sono qui perché che altra scelta ho?
Pensare a mamma mi ha fatto venir voglia di essere morto anch’io, ma poi mi sono detto, a che cosa serve? Probabilmente un Dio non c’è, quindi non riuscirei a vederla comunque.
La notte scorsa mi sono affondato le unghie nelle mani e le ho fatte sanguinare. Un po’ di dolore extra mi ha fatto star bene.
Ora è il giorno dopo e ancora non ci credo, continuo a pensare che passerà da quella porta da un momento all’altro. Le chiederò scusa per essere scappato, si scuserà anche lei e ci abbracceremo. Poi mi torna in mente. Non c’è più. È finita. Mai più. Mai! Dio che male!
Piango un sacco, mi addormento, mi sveglio, piango di nuovo.
È da un’ora che non piango più. Forse mi sono prosciugato, non ho più lacrime.
Ehi, dottore, mettimi un po’ di lacrime nella flebo.
Sputo per terra. Se solo potessi svuotarmi la mente come gli inservienti svuotano il mio cestino, via con tutta l’altra spazzatura.
Quando sono solo penso a lei. Anche se fa male. Voglio sentir male.
lo sono abituato a essere solo. Non mi basta mai. Con tutti i medici e le infermiere che vanno e vengono certe volte non sopporto più tutte quelle chiacchiere, tutte quelle belle parole di compassione. Mi viene voglia di prenderli tutti a pugni.
Sam no. Viene tutte le mattine, mi porta caramelle e riviste, mi accarezza la mano e mi dice che io e lui siamo della stessa razza, due duri, due sopravvissuti. Mi dice che non permetterà a nessuno di «incasinarmi» la vita, di stare tranquillo, ha le sue conoscenze. Ripete sempre le stesse cose e certe volte la sua voce mi fa addormentare. Io lotto per rimanere sveglio, non voglio che ci resti male. Lui è stato mio amico quando non avevo nessun altro. Una volta è venuto con la signora Kleinman, ma lei mi ha infastidito, mi toccava la faccia, ha portato del cibo che non volevo mangiare e lei voleva mettermelo in bocca. Sono stato cortese con lei, ma forse Sam ha capito perché non l’ho più rivista.