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Petra aveva finito il caffè e Stu aveva bevuto un altro sorso della sua acqua minerale.

«Allora quando scriverai una sceneggiatura tutta tua?»

«Dai, Petra, non me lo merito», aveva protestato lui aprendo di nuovo il portafogli ed estraendo qualche banconota.

Ma la settimana dopo aveva accettato una parte a Pacoima. A Los Angeles tutti desideravano essere qualcos’altro, anche un uomo tutto d’un pezzo come Stu.

Lei no. Dopo un anno di college statale a Tucson, si era trasferita in California per iscriversi al Pacific Art Institute, aveva ottenuto una laurea in belle arti con specializzazione in pittura e si era messa in attività con un marito a condividere il suo letto. Nick aveva un ottimo lavoro come disegnatore di automobili al nuovo laboratorio della GM. Lei guadagnava qualche spicciolo illustrando inserzioni sui giornali e vendendo alcuni dei suoi lavori tramite una galleria cooperativista di Santa Monica, andando in pari con le spese che sosteneva per produrli. Poi era venuto il giorno dell’illuminazione: la sua non era una strada, era un capolinea. Ma almeno aveva Nick.

Poi la salute l’aveva tradita, Nick aveva gettato la maschera lasciandola stordita, al verde, sola. Una settimana dopo che lui se n’era andato, qualcuno si era introdotto nell’appartamento rubandole i pochi oggetti di valore che possedeva, compresi cavalletto e pennelli.

Era precipitata in una depressione durata due mesi, fino a una sera di novembre in cui si era finalmente trascinata fuori del letto per finire in macchina per la città, inerte, spenta, indifesa. Pensava di dover mangiare, la sua pelle aveva assunto un colorito terribile e aveva cominciato a perdere i capelli, ma non aveva appetito, l’idea stessa del cibo le dava la nausea. Si era ritrovata sulla Wilshire, e quando aveva girato per tornare verso casa il suo sguardo si era posato su un manifesto esposto nei pressi di Crescent Heights. Il dipartimento di polizia di Los Angeles stava reclutando nuovi agenti. Meccanicamente Petra aveva ricopiato il numero verde.

Erano trascorse altre due settimane prima che si decidesse a telefonare. La commissione aveva dichiarato che il dipartimento aveva soprattutto bisogno di reclutare donne. Era stata accolta con entusiasmo.

Era entrata all’accademia per puro capriccio, convinta che fosse un errore stupido e incomprensibile, e aveva scoperto con stupore di trovarsi bene, all’inizio, e in seguito di essersi appassionata. Trovava stimolo persino nelle difficoltà da superare durante l’addestramento fisico, nell’arte di usare più la flessibilità che la forza bruta per superare il Muro, nell’evitare di finire dietro una scrivania avendo scoperto di possedere ottimi riflessi e un talento naturale nel trovare la leva giusta con cui atterrare l’avversario nei corpo a corpo.

Persino nella divisa.

Non quella leziosa dei cadetti, celeste di sopra e blu scuro sotto, ma quella vera, tutta blu scuro, l’uniforme di chi fa sul serio.

Lei, che aveva stigmatizzato tanti compagni fascisti quand’era al collegio per il loro conformismo da branco, si era innamorata della sua divisa.

Molti dei maschi che frequentavano il suo corso in accademia erano fanatici della prestanza fisica e si erano fatti confezionare l’uniforme come una seconda pelle, in maniera da mettere in risalto bicipiti, deltoidi, latissimi.

La versione maschile di un WonderBra.

Una sera, d’impulso, si era confezionata la propria divisa, usando la vecchia Singer graffiata che aveva portato con sé da Tucson, una delle poche cose che i ladri le avevano lasciato.

Era alta un metro e settanta per cinquantotto chilogrammi, con gambe snelle, fianchi stretti, spalle squadrate, un sedere che considerava troppo piatto e un seno piccolo ma naturale che con il tempo aveva imparato ad apprezzare. Crescendo con un padre e quattro fratelli aveva scoperto la preziosa utilità di saper cucire.

Aveva dedicato gran parte dei suoi sforzi alla camicia perché le ingrossava la vita e con i fianchi che si ritrovava aveva bisogno di un minimo di forme. Il risultato finale aveva reso omaggio alla sua figura senza ostentazione.

Ottenuto il diploma la sua felicità era stata ancora più grande, anche se non aveva invitato nessuno alla cerimonia, ancora nervosa per quel che avrebbero potuto pensare di lei papà e i fratelli.

Aveva rivelato loro il suo segreto quando era in prova da un mese. Erano rimasti tutti sorpresi, ma nessuno l’aveva in alcun modo criticata. Ormai era lanciata.

Del lavoro alla polizia le andava bene tutto. L’addestramento fisico, il pattugliamento, gli appelli, le sessioni al poligono. Nemmeno la burocrazia le era di peso, perché se c’era una cosa che il collegio le aveva insegnato erano buone tecniche di apprendimento e padronanza della lingua inglese, cosicché si trovava in vantaggio sulla gran parte dei suoi muscolosi colleghi che vedeva masticare matite assorti in angoscianti dilemmi di sintassi e punteggiatura.

In diciotto mesi era stata promossa detective.

Guadagnandosi il diritto di piantonare un involucro.

Una nuova macchina si unì alle altre già parcheggiate. Un’ultracompatta con lo stemma del dipartimento sullo sportello. Ne uscì una fotografa della polizia con tanto di Polaroid professionale. Giovane, più o meno coetanea della vittima, vestita alla bell’e meglio, con capelli lunghi, troppo neri. Quattro fori in un orecchio, due nell’altro: piercing puro, niente orecchini. Volto ordinario, guance incavate, con una punta di acne su ciascuna. Occhi combattivi da Generazione X.

Mentre si avvicinava al cadavere, Petra ne costruì un identikit ipotetico: uno spirito artistico tornato con i piedi per terra, come aveva fatto lei. Probabilmente la sera si vestiva di nero, fumava erba e beveva stinger nei locali di Sunset Strip, bazzicando rockettari mancati che l’accettavano così com’era.

Aprì la fotocamera, abbassò lo sguardo ed esclamò: «Dio mio, ma io so chi è!»

«Chi?» chiese Petra richiamando Stu con un gesto.

«Non so come si chiama ma so chi è. È la moglie di Cart Ramsey. O magari la ex moglie ormai. L’ho vista in TV un anno fa. Lui la picchiava. Era uno di quei programmi di cronaca vera. Ha descritto Ramsey come un autentico pezzo di merda.»

«È sicura?»

«Al cento per cento», confermò la fotografa, seccata. Sul tesserino con fotografia che qualificava la sua professione compariva il nome Susan Rose. «È lei, mi creda. Dicevano che era stata una reginetta di bellezza e che Ramsey l’aveva conosciuta a un concorso… Dio, com’è conciata, che schifoso bastardo!» La mano con cui reggeva la fotocamera si contrasse e l’apparecchio dondolò.

Si avvicinò Stu e Petra gli ripeté che cos’aveva detto Susan Rose.

«Ne è sicura?» chiese lui.

«Gesù, sono più che sicura.» Susan cominciò a scattare fotografie, una via l’altra, puntando la fotocamera come se fosse un’arma. «In TV aveva dei lividi in faccia e un occhio nero. Quel maiale!»

«Chi?» domandò Petra.

«Ramsey. Sarà stato lui, no?»

«Cart Ramsey», scandì Stu senza inflessioni e Petra si domandò se Stu avesse lavorato agli episodi della serie di Ramsey… come si chiamava? The Adjustor: un investigatore privato che risolveva i problemi degli oppressi.

Sarebbe stata bella, ma Stu compariva di solito nei telefilm di guardie e ladri dove interpretava la guardia di contorno, lui che lo era davvero, in mezzo a sbirri finti.

Susan Rose sfilò una cartuccia dalla fotocamera e la ripose nell’astuccio.

«Grazie», le disse Petra. «Controlleremo. Lei finisca in pace il suo lavoro.»

«È lei, credetemi», ripeté Susan Rose sempre sulle sue. «Ora posso finirla? Ho preso tutte quelle che mi servono su questo lato.»

5

Due ore che cammino. Non inciampo più come prima.

Tutte quelle coltellate.

PLYR 1. C’è un bar sul boulevard, il Players, è il ritrovo dei magnaccia. Si chiamano così perché mangiano a sbafo?