Ma Joe era un ottimo barista e gli Osservatori l’avevano messo nel posto giusto. Non in una grande città, ma in una molto più piccola; una città appena fuori dall’autostrada, dove spesso si fermavano i camionisti; una cittadina non lontana da una grande metropoli, in modo che le cose interessanti fossero a portata di mano e se ne potesse parlare, preoccuparsene, spettegolarci e divertirsi.
Per cui il bar e tavola calda di Joe era un posto simpatico e molto frequentato. Ma non da gente alla moda e neppure da ubriaconi, ma da gente sola e alla mano, in giusta proporzione. — I miei clienti sono come un buon drink, un po’ di questo e un po’ di quello, per creare un gusto nuovo con un sapore migliore di ciascuno degli ingredienti. — Oh, Joe era un poeta, era un poeta dell’alcool e, come molta gente in quei giorni, lui era solito dire: — Mio padre era avvocato e ai suoi tempi anch’io avrei finito con il fare l’avvocato e non avrei mai saputo quello che perdevo.
Joe aveva ragione. Ed era davvero un ottimo barista e non avrebbe voluto essere in nessun altro posto e così era felice.
Ma una notte arrivò un tizio che non si era mai visto, un uomo con un camion per la consegna delle noccioline, con il nome di una fabbrica di noccioline sull’uniforme. Joe lo notò perché il silenzio circondava quell’uomo come un odore… dovunque andasse la gente lo notava e, benché lo guardassero appena, abbassavano la voce o smettevano del tutto di parlare, diventavano pensosi e guardavano le pareti e lo specchio dietro il bar. L’uomo che consegnava le noccioline era seduto in un angolo, con una bevanda allungata con acqua, il che significava che aveva intenzione di restare a lungo, e non voleva ingerire l’alcool troppo in fretta per non essere costretto ad andarsene troppo presto.
Joe era un acuto osservatore e notò che quell’uomo continuava a fissare l’angolo buio in cui si trovava il pianoforte. Era una vecchia mostruosità scordata, un cimelio dei tempi andati (perché quel bar esisteva da molto tempo), e Joe si domandò perché quell’uomo ne fosse affascinato. Certo, molti dei clienti di Joe se ne erano interessati, ma si erano limitati ad avvicinarsi e toccare i tasti, cercando una melodia senza riuscirci, perché il piano era scordato, e alla fine avevano rinunciato. Ma quest’uomo, invece, sembrava quasi spaventato dal piano e non osava avvicinarsi.
All’ora di chiusura, l’uomo era ancora lì e allora, d’impulso, invece di farlo uscire, Joe abbassò la musica di sottofondo, spense quasi tutte le luci, e poi andò ad alzare il coperchio, scoprendo i tasti grigi.
L’uomo che consegnava noccioline si avvicinò. Chris, c’era scritto sulla targhetta. Si sedette e sfiorò un tasto. Il suono non fu gradevole. Ma l’uomo toccò tutti i tasti ad uno ad uno, poi di nuovo in ordine diverso, e per tutto il tempo Joe lo osservò, domandandosi perché l’uomo provasse una tale emozione.
— Chris — disse Joe.
Chris lo guardò.
— Conosci qualche canzone?
La faccia di Chris assunse una strana espressione.
— Voglio dire, una vecchia canzone, non una di quelle stupide canzonette della radio. «In una piccola città spagnola». Mia madre me la cantava sempre. — E Joe cominciò a cantare: — «In una piccola città spagnola, era una notte come questa. Giocavano le stelle a nascondino, in una notte come questa».
Chris cominciò a suonare mentre la debole voce stonata e baritonale di Joe continuava la canzone. Ma non era un accompagnamento; non era qualcosa che Joe avrebbe chiamato un accompagnamento. Era invece un contrappunto alla melodia, un forte contrasto, e i suoni che uscivano dal piano erano strani e disarmonici e, per Dio, bellissimi. Joe smise di cantare ed ascoltò. Rimase ad ascoltare per due ore e, quando tutto finì, versò con grande rispetto un drink per l’uomo ed un altro per sé e brindò con Chris, l’uomo che consegnava le noccioline, e che era in grado di prendere quel vecchio piano malandato e di farlo cantare sul serio.
Tre sere più tardi Chris ritornò, con un’espressione circospetta e tormentata. Ma questa volta Joe sapeva quello che sarebbe successo (che doveva succedere) ed invece di aspettare l’ora di chiusura, spense la musica con dieci minuti di anticipo. Chris lo guardò implorante. Joe fraintese… andò al piano e sollevò il coperchio della tastiera, sorridendo. Chris si avvicinò rigido allo sgabello e, con una certa riluttanza, si sedette.
— Ehi, Joe — disse uno degli ultimi cinque avventori, — chiudi prima, stasera?
Joe non rispose. Si limitò a guardare mentre Chris cominciava a suonare. Nessun preliminare, questa volta: niente scale e digressioni sui tasti. Solo potenza, e il piano fu suonato come non si era mai inteso che un piano dovesse suonare; le note sbagliate, quelle stonate, si adattarono alla musica tanto da risultare perfette, e sembrava che le dita di Chris, ignorando la restrizione di una scala a dodici toni, suonassero, almeno così parve a Joe, nelle fenditure fra un tasto e l’altro.
Nessuno dei clienti se ne andò prima che Chris avesse finito, un’ora e mezzo più tardi. Tutti accettarono l’ultimo goccio e tornarono a casa scossi da quell’esperienza.
La sera seguente Chris tornò, e anche quella dopo, e quella dopo ancora. Qualunque fosse la battaglia privata che l’aveva tenuto lontano per qualche giorno dopo la prima notte in cui aveva suonato, evidentemente era stata vinta o persa. Non erano affari di Joe. Quello che gli importava era che quando Chris suonava il piano, riusciva a provare sensazioni che la musica non gli aveva mai regalato, ed era questo che lui voleva.
E sembrava che fosse così anche per i clienti. Verso l’ora di chiusura la gente affollava il locale, apparentemente solo per sentire Chris suonare. Joe cominciò ad anticipare sempre più l’inizio della sua esibizione e dovette smettere di offrire da bere dopo il concerto perché la gente era troppa, e la cosa lo avrebbe mandato in rovina.
Continuò così per due lunghi e strani mesi. Il furgone delle consegne si fermava davanti al locale e la gente si faceva da parte per far entrare Chris. Nessuno gli diceva niente, ma tutti aspettavano che cominciasse a suonare. Lui non beveva. Suonava e basta. E tra una canzone e l’altra, le centinaia di persone nel Bar e Tavola Calda da Joe mangiavano e bevevano.
Ma l’allegria era svanita. Le risa, le chiacchiere, l’affiatamento in breve tempo cessarono, e dopo un po’ Joe si stancò della musica, e cominciò a desiderare di riavere il suo bar come era stato prima. Accarezzò l’idea di sbarazzarsi del piano, ma i clienti se la sarebbero presa con lui. Pensò di chiedere a Chris di non venire più, ma non aveva il coraggio di parlare a quell’uomo così strano e silenzioso.
E finalmente fece quello che avrebbe dovuto far fin dal principio. Chiamò gli Osservatori.
Arrivarono nel bel mezzo di una esibizione, un Osservatore cieco che teneva un cane al guinzaglio, ed un Osservatore senza orecchi che camminava con passo malfermo, appoggiandosi qua e là per mantenersi in equilibrio. Arrivarono nel mezzo di una canzone e non aspettarono che finisse. Andarono al piano e chiusero dolcemente il coperchio; Chris tolse le dita e guardò il coperchio chiuso.
— Oh, Christian — disse l’uomo che aveva un cane come guida.
— Mi dispiace — rispose Christian, — ho cercato di non farlo.
— Oh, Christian, come posso sopportare di farti ciò che deve essere fatto?
— Lo faccia — disse Christian.
E così l’uomo senza orecchi prese un coltello laser dalla tasca del suo cappotto e tagliò le dita di Christian, proprio nel punto in cui erano unite al palmo. Il laser cauterizzò e sterilitzzò la ferita nel momento stesso in cui recideva, ma qualche goccia di sangue si sparse ugualmente sull’uniforme di Christian. E Christian, con il palmo delle mani e le nocche ormai inutili, si alzò e uscì dal Bar e Tavola Calda di Joe. La gente si spostò ancora per farlo passare ed ascoltò con attenzione le parole dell’Osservatore cieco: — Quello è un uomo che ha infranto la legge, e a cui era stato proibito di essere un Compositore. Lui ha infranto la legge una seconda volta e la legge vuole che lui smetta di sovvertire un sistema che vi rende tutti felici.