Ci scommetto, pensai, mentre indietreggiavo verso la porta. «Signor Cleg,» disse lei, «non sia sciocco.» Continuando ad arretrare, cercai la maniglia alle mie spalle. Era una donna grossa, ma sentivo che sarei riuscito a cavarmela, se avessi dovuto; per fortuna, non si arrivò a tanto. «Allora la lascio a se stesso, signor Cleg,» disse, e uscì scuotendo la testa. Non c’è serratura alla porta del bagno (non ci sono serrature da nessuna parte in questa casa, tranne — significativamente — sulla porta che dà sulle scale del solaio, e naturalmente su quella del dispensario), ma mediante un’attenta disposizione del mio asciugamano riuscii a coprire il buco della toppa; poi finalmente entrai nella vasca e distesi le mie magre membra: non c’era nessun odore.
Per qualche ragione mi trovo a pensare alla carbonaia di Kitchener Street. Una volta mia madre inciampò in un topo laggiù, per cui mi faceva sempre scendere al suo posto. Dopo un po’, incominciai a scendere senza nessuna ragione, semplicemente presi ad amare il buio e l’odore della polvere di carbone nelle narici, e ancora oggi non mi riesce di annusare del carbone senza ricordarmi la carbonaia, e forse è per questo che ci sto pensando adesso. Il mio olfatto è sempre stato acuto, e mi viene in mente che tutta questa storia del gas potrebbe avere a che fare con questo — sono ipersensibile, dal punto di vista olfattivo, e ciò potrebbe consentirmi di cogliere sfumature di odore che forse sono impercettibili per un naso normale, o che magari non esistono affatto. Ma non mi soffermerò oltre su ciò: l’odore è scomparso, probabilmente era un errore, e io sono stato uno sciocco a dargli tanta importanza. Abbastanza stranamente, adesso mi ricordo che odore aveva di solito la strada quand’ero un ragazzo: odore di birra. C’era una fabbrica di birra non lontana dal canale, e per la maggior parte del tempo l’aria era pregna del particolare odore della birra — malto, lievito, o quello che sia. Mia madre lo odiava; non beveva quasi mai — un bicchiere o due di mild al sabato sera — perché per lei il bere era associato all’umore di mio padre. Una volta mi disse, mentre eravamo seduti da soli in cucina, che secondo lei la nostra avrebbe potuto essere una famiglia felice se mio padre non avesse bevuto. Non lo penso; io credo che la crudeltà di mio padre verso mia madre ci sarebbe stata — forse in maniera diversa — anche se non avesse mai toccato neanche una goccia di alcol. Perché dipendeva dalla sua natura, da quello che c’era — o piuttosto non c’era — dentro di lui.
Tuttavia è strano che mi piacesse la carbonaia, perché è lì che lui mi frustava. Ricordo che una volta (non sono sicuro se fosse prima o dopo la morte di mia madre) mi disse di smetterla di far stridere i rebbi della forchetta sul piatto, era qualcosa che lo irritava. Ebbene io lo rifeci e lui uscì dai gangheri. L’oscurità naturale della cantina era sempre piena di polvere di carbone, che ondeggiava nell’aria sotto forma di minuscoli puntini neri — i germi del diavolo, pensavo —, che penetrava negli occhi, nella bocca e nelle narici, perfino nei pori della pelle, e io tornavo sempre di sopra sentendomi annerito da quel luogo, e anche questa era una sensazione gradevole, perché mi piaceva immaginarmi come un ragazzo nero come il carbone, che poteva muoversi nell’oscurità senza essere visto. Ricordo anche i suoni: come scricchiolavano le scale mentre scendevo io e come scricchiavano in maniera diversa quando era mio padre a scendere dietro di me. Poi, oltre allo scricchiolio, c’era lo slacciarsi della cintura — il tintinnio della fìbbia e lo sfilarsi del cuoio dai passanti dei pantaloni —, e adesso non riesco a sentire questi suoni senza pensare al dolore, anche se il male delle frustate non era mai brutto come i minuti che lo precedevano: la rabbia di mio padre, il modo in cui digrignava i denti e arricciava le labbra e mi sibilava di scendere in cantina — l’anticipazione, voglio dire, era peggio del fatto vero e proprio.
La cantina, come la cucina, era illuminata da una sola lampadina che pendeva da un filo elettrico marrone; piccola e bassa com’era, quella lampadina non faceva che enfatizzare la profondità delle ombre che occupavano grandi spazi lungo le pareti. Avevo spesso delle fantasie, laggiù, riguardanti fantasmi e catene e torture — con quanta gioia torturavo mio padre! Avvicinavo un coltello affilato ai reticoli di pelle tra le sue dita e glieli aprivo! Al centro del pavimento c’era un pilastro, un pilastro annerito, tarlato e vecchissimo, che sosteneva l’impiantito di sopra; accanto pendeva la lampadina, che proiettava sul suolo un cerchio di debole luce giallastra. In questo cerchio io entravo e incominciavo a slacciarmi i pantaloni di pesante lana grigia che mi arrivavano fino alle ginocchia ed erano sostenuti da un paio di bretelle a strisce che a quel tempo avevano tutti i ragazzi. I pantaloni cadevano in un mucchio disordinato sui miei stivali, seguiti dalle spesse mutande invernali; poi, senza una parola, incrociavo le braccia sul pilastro e ci appoggiavo la testa, piegandomi all’altezza della vita. Allora facevo finta che ci fosse un altro Spider appoggiato al palo, o addirittura legato, o perfino inchiodato — e io frustavo lui con la cintura! Spesso immaginavo mio padre inchiodato a quel pilastro.
Lui prendeva posizione dietro di me, batteva i piedi un paio di volte, la cintura arrotolata e tenuta appena sotto la fibbia. C’era un vecchio chiodo piantato malamente nel palo, appena sopra il punto in cui appoggiavo le braccia, e ci agganciavo il mignolo e pensavo a qualcos’altro. Spesso pensavo ai topi che vivevano in cantina e venivano regolarmente presi nelle trappole che mio padre metteva e caricava con formaggio avvelenato. Avevo l’abitudine di controllare queste trappole almeno una volta al giorno e, se c’era un topo, me lo mettevo in tasca e, più tardi, quando andavo a pescare nel canale, lo usavo come esca, piantandogli un chiodo nell’orecchio, prima di piegarlo e attaccarlo a un pezzo di spago. Non so cosa sperassi di prendere nel canale dei gasometri, non c’era nient’altro che vecchi stivali e poche carpe fangose, forse una bicicletta arrugginita — ero davvero ridicolo, con i pesanti pantaloni grigi, accoccolato sulla riva (non lontano, mi accorgo, da dove oggi si trova la mia panchina, ma sulla riva opposta) con le calze rimboccate sopra gli stivali e le grosse ginocchia sporgenti di lato, mentre gettavo lo spago in acqua e lo osservavo fondersi perfettamente con il proprio riflesso e poi vedevo germogliare, sulla superficie nera del canale, un’immagine della mia forma ingobbita che un momento dopo, con la brezza, si sarebbe dissolta in mille frammenti scintillanti! Nella mia immaginazione ero, suppongo, un ragazzo nero, nel profondo di qualche giungla, accovacciato su un tronco con un gonnellino e una maschera… Poi l’odio di mio padre arrivava penetrante, e l’unica cosa che sentivo era il dolore.
All’epoca, frequentava l’Earl of Rochester. Si trattava di un pub molto più grande del Dog and Beggar; era il posto in cui Hilda e i suoi amici passavano generalmente le serate, essendo vicino a Spleen Street, e questa era una fortuna, perché nei suoi rapporti con Hilda più lontano stava da Kitchener Street e meglio era. Spesso lo seguivo quando usciva di casa dopo cena; scivolavo sul sentiero dietro di lui, correndo da un ingresso a un bidone della spazzatura, tenendomi nell’ombra, e così mio padre non sospettò mai nulla. Lo guardavo attraverso una finestra del Rochester, vedendolo seduto con Hilda e Nora e gli altri; spesso sembrava isolato, escluso — non apparteneva al loro mondo capii più tardi, al mondo delle sgualdrine e degli scommettitori e degli imbroglioni: il suo era il mondo solitario e circoscritto di un idraulico, e lui non era un uomo socievole per natura. A volte, spiandolo dal marciapiede, pensavo a come io sedevo in fondo alla classe ogni giorno, senza neanche essere davvero presente: allo stesso modo, mio padre sedeva nel pub con Hilda e gli altri, guardando la gente con un’espressione assente sulla faccia, lasciando che le chiacchiere gli passassero accanto — fino a quando, cioè, lei gli metteva una mano sulla coscia, e questo lo riportava alla vita. Oh, Hilda dava «il meglio di sé» in un pub: amava ridere e civettare, amava scherzare con gli uomini e piangere con le donne, e adorava il suo porto… Come adorava il porto dolce, quella donna! Così lei lo riportava alla vita e lui beveva un sorso della sua mild, produceva un guizzo o due del suo furtivo sorriso, si crogiolava un momento al raggio della calda luce alcolica di Hilda; poi l’attenzione di lei veniva attirata altrove e lui si allontanava di nuovo. Quella solfa seguitava avanti e indietro, altri si univano al gruppo, i bicchieri andavano e venivano (in qualche modo, c’erano sempre i soldi per un altro giro, anche se spesso era mio padre che pagava l’ultimo della serata), e poi, finalmente, dopo essere rimasto seduto in silenzio tutta la sera, veniva ricompensato come un bravo bambino: perché al momento della chiusura doveva riaccompagnare Hilda a Spleen Street. Io li seguivo a distanza mentre loro svoltavano nelle stradine e nei vicoli, e in una di quelle viuzze, immersi nell’ombra, passavano alcuni minuti abbracciati. Poi Hilda gli slacciava la patta dei pantaloni, tirava fuori il suo uccello sottile e duro e lo portava all’orgasmo con pochi abili colpi. Si allontanava da lui poco dopo, e mio padre tornava a casa. Io non ero sempre presente all’ultima parte delle loro serate, perché dovevo rientrare prima che arrivasse lui, ma posso immaginarmele fin troppo bene.