«Dove sei stato, Horace?» disse lei con tono sommesso. C’era un velo di accusa nella sua voce, un’accusa temperata dalla tristezza. La porta tra la cucina e il corridoio era aperta, per cui scivolai fuori dal letto (ero arrivato a casa da poco anch’io) e sedetti in cima alle scale, in pigiama, per ascoltare. A questo punto, mio padre ebbe ancora un barlume di decenza in sé? L’infelicità di sua moglie gli toccò il cuore e lo lacerò, lo lacerò fra un involontario moto di compassione per mia madre, del cui dolore era responsabile, e la sua profonda irritazione verso di lei, non solo perché era un ostacolo alla sua volgare relazione con Hilda Wilkinson, ma anche perché complicava il semplice impulso del suo desiderio? Il suo cuore non era ancora diventato del tutto di pietra, credo; lei suscitava ancora, penso, alcune tracce delle responsabilità che un tempo avvertiva, tuttavia era costretto a sopprimere violentemente il senso di colpa scatenato da questi sentimenti, e per una semplice ragione: poteva conservare la sua passione per Hilda solo se contemporaneamente si induriva nei confronti di mia madre — se, in altre parole, creava una sorta di innaturale divisione tra le sue emozioni: l’unica alternativa era dibattersi nell’incertezza e nell’indecisione, una condizione flaccida e femminea che egli era ansioso di evitare. Così mentre una vocina gli gridava di confortare mia madre, di asciugare le lacrime da quegli occhi annebbiati, di prenderla fra le braccia e rimettere tutto a posto, un impulso uguale e contrario gli diceva di farla soffrire, di intensificare la crisi, di provocare il crollo e la dissoluzione di tutti i fragili legami che ancora li tenevano uniti. E lui non la consolò, strinse le labbra in una linea dura e sottile, si tolse gli stivali uno dopo l’altro e si massaggiò i piedi. «Giù al pub,» disse.
«Al Dog?»
«Sì.»
«Bugiardo! Sei un bugiardo, Horace,» gridò lei. Oh, era duro per me sentire la sua voce che si rompeva in quel modo, lei così estranea all’ira! «Sono andata al Dog e non c’eri!» Adesso lei sedeva eretta all’estremità della tavola, con le lacrime che le scorrevano sulle guance e una sorta di luce acquosa negli occhi, furia e dolore uniti.
«Sono andato da un’altra parte, dopo un po’,» disse rabbiosamente mio padre. «Perché sei venuta al Dog? Non è sabato.»
Lei non rispose alla domanda, si limitò a fissarlo mentre le lacrime le scendevano sulle gote, senza neanche curarsi di asciugarle.
Mio padre si strinse nelle spalle, abbassando gli occhi e massaggiandosi ancora una volta i piedi. «Sono andato giù all’Earl of Rochester.» Quando lo sentii dire queste parole, pensai: perché gliel’ha detto? Come avrebbe fatto a tornarci, con la possibilità che lei andasse a cercarlo? «Perché mi segui?» chiese lui rabbiosamente. «Possibile che un uomo non possa bersi un bicchiere dopo il lavoro?»
«Non voglio vivere così,» disse mia madre, di nuovo tranquilla, asciugandosi la faccia col grembiule. «Non pensavo di vivere così.»
«Non è colpa mia,» disse mio padre, mentre una voce nella sua testa diceva: «Oh, sì che lo è.»
«Sì che lo è,» disse mia madre, diventando per un momento l’impotente espressione della sua coscienza.
«No!» gridò lui — e io non resistetti oltre. Corsi giù dalle scale, lungo il corridoio, a piedi nudi, fìngendo di non riuscire a prendere sonno. Mia madre si voltò verso di me, e la vista del suo volto rigato di lacrime mi sconvolse terribilmente. «Va tutto bene, Spider,» mormorò, battendo le palpebre una volta o due, mentre si alzava stancamente dalla sedia e si rassettava il grembiule sullo stomaco in un modo tutto suo. «Tuo padre e io stiamo solo parlando.»
«Mi avete svegliato,» dissi io, o qualcosa del genere, non ricordo esattamente.
«Va tutto bene, adesso,» ripeté lei. «Adesso veniamo tutti a letto.» Mi prese la mano; ero più alto di lei, anche a piedi nudi. «Forza, Spiderone,» disse lei, «torna su a letto.» E salimmo le scale. Mio padre rimase seduto là per altri dieci minuti circa, poi lo sentii spegnere la luce (e venire di sopra. Mia madre era sveglia, sdraiata supina nel loro enorme letto, e fissava il soffitto; il chiaro del lampione esterno filtrava dalle tende e creava strane figure romboidali di luce e ombra sopra la sua testa. Mio padre si svestì e scivolò nel letto dalla sua parte, e tutti e due rimasero là al buio, silenziosi e insonni, per più di un’ora.
La mattina dopo, quando mio padre si alzò, si vestì per il lavoro e scese da basso, trovò mia madre in cucina ai fornelli che friggeva della pancetta. Aveva messo una tovaglia bianca pulita sulla tavola e gli aveva versato il tè. Era tranquillamente immersa nella sua fervida attività; ruppe un paio di uova nella padella e, un attimo dopo, gli mise davanti il piatto: uova e pancetta, pomodoro e rognone fritto. «Mi sono alzata per prepararti qualcosa di buono per la colazione,» disse. «Hai bisogno di una buona colazione al mattino, lavori tanto.» Poi tagliò tre fette da una pagnotta e le spalmò di sugo per il pranzo. Mio padre consumò la colazione; non disse nulla ma, per quanto «morto» fosse, non poteva non essersi reso conto del significato e della qualità del suo gesto. «Bevi il tè finché è caldo,» mormorò lei mentre gli avvolgeva i panini nel giornale. Lui partì per il lavoro pochi minuti dopo, uscendo dalla porta sul retro; lo guardai dalla mia finestra. Mia madre era al lavandino quando mio padre uscì: sentivo scorrere l’acqua. Lui si fermò un attimo sulla soglia e la guardò. Lei gli rivolse un piccolo sorriso, senza alzare le mani dall’acqua, e un’espressione comparve sulla bocca di lui, una specie di strizzatura delle labbra, che era in parte rassegnazione e in parte rimpianto; poi annuì un paio di volte. Pedalando verso il lavoro nell’aria fresca del primo mattino, immagino che si sentisse stranamente in pace; era la notte che portava con sé la passione, la confusione e il dolore; al mattino era diverso.
Parecchie volte nel corso della giornata decise che aveva definitivamente chiuso con Hilda Wilkinson. Si rammentò di quello che lei gli aveva detto la sera prima, si ricordò di quanto gli erano antipatiche le persone con cui lei beveva e, non ultimo, pensò alla disperazione di mia madre, se mai avesse scoperto quello che stava succedendo. Questo gli diede davvero un po’ di respiro; debole e insensibile poteva esserlo, ma non era preparato ad affrontare tutto ciò. No, questa breve storia con Hilda Wilkinson, questo breve incontro, meglio lasciarselo alle spalle, dimenticarlo, ritornare alla routine della vita quotidiana, alla stabile routine che, apparentemente, conosceva da sempre.
La decisione di mio padre rimase immutata, direi, fin verso la metà del pomeriggio. Stava verificando l’impianto idraulico di un magazzino di East Ham col suo socio Archie Boyle, un simpatico giovane grasso con i capelli color carota. Lo vedo in cima a una scala a pioli di legno, le gambe strette contro il gradino più alto, impegnato con martello e pappagallo su un pezzo di tubo vecchio, in alto fra la polvere e l’oscurità. Ogni colpo del martello risuona cupamente nell’edificio vuoto, e al di sopra di questo riverberante clangore proviene il suono acuto e sottile, dall’altra parte, del fischio di Archie, impegnato a preparare le sezioni del nuovo tubo che mio padre installerà. Nella mano sinistra, mio padre ha il pappagallo, stretto intorno a un vecchio dado ottagonale che negli anni si è quasi fuso con il tubo, e nella destra tiene il martello, con il quale dà una serie di colpi decisi al manico della chiave, nel tentativo di allentare il dado. Ogni colpo di martello risuona nel magazzino come una specie di funerea campana a morto, delle schegge di ruggine si staccano, e lui deve voltare la testa per evitare che gli finiscano negli occhi. Lentamente il dado incomincia a ruotare. La mente di mio padre, cullata dal regolare clangore dei colpi di martello sovrapposti in quella grande camera vuota, come una sorta di fantastica sinfonia gotica, al lento fischio stonato di Archie Boyle, si è messa di nuovo a divagare sugli eventi della sera prima, sull’immagine di Hilda Wilkinson col cappotto di pelliccia aperto, le mani sui fianchi, le gambe nude, un ginocchio alzato in modo che la gonna le risalga sulla coscia bianca, che sorride col suo sorriso mascelluto nell’ombra — e con quella visione, l’idea di possederla, lì nel vicolo, quella «sgualdrina» (come assapora questa parola!), contro il muro, con la gonna sollevata fino alla vita…