All’improvviso dal tubo sgorga un gran getto sibilante di acqua fredda. Lo colpisce in pieno petto, facendolo quasi cadere dalla scala. Da tutt’intorno al dado allentato sprizzano getti d’acqua — i tubi non sono stati isolati dall’impianto principale. Archie arriva trotterellando nel magazzino mentre mio padre scende dalla scala, gocciolando e bestemmiando, e l’acqua spruzza il soffitto e la parte alta della parete, poi scende a formare una pozzanghera che si allarga sul pavimento di cemento. «Maledizione!» grida mio padre, mentre corre via per chiudere l’acqua. Non c’è bisogno che qualcuno gli dica che è colpa sua.
Quando ritorna, Archie, sempre fischiettando, sta lavorando sodo con secchio e strofinaccio. Non è un grosso problema, dopo tutto; ma mentre mio padre riprende rabbiosamente il lavoro sul dado ottagonale sa che se non fosse stato per Hilda questo non sarebbe successo. I due ritornano ai loro compiti; per tutto il tempo, fuori dalle polverose finestre del magazzino, la luce si illanguidisce nel cupo e triste pomeriggio novembrino, e a mano a mano che si indebolisce mio padre non riesce a impedire che i suoi pensieri tornino in continuazione a Hilda, alla «sua sgualdrina», e il rimpianto sale come una febbre e le sue decisioni vengono tutte dimenticate.
Poco dopo i due idraulici lasciarono il magazzino deserto. Con l’arrivo del buio, una nebbia umida e fredda era salita dal fiume, e mio padre si calcò ben bene il berretto sulla testa e si annodò la sciarpa intorno alla gola. Dopo essersi separato da Archie, salì in bicicletta e pedalò in direzione di Kitchener Street. L’umidità della nebbia si condensava sui suoi occhiali e gli faceva bruciare gli occhi mentre percorreva strade scure e deserte, superava neri muri che brillavano scivolosi dove si rifletteva la luce diffusa dai lampioni, prima di ritirarsi di nuovo nel nero indistinto. Di quando in quando, incrociava una figura frettolosa, i cui passi diventavano improvvisamente forti, poi quasi con la stessa rapidità svanivano nel silenzio. Il percorso di mio padre lo portò lungo strade che tendevano a scendere verso i docks, e intanto la nebbia si faceva più densa, la città più deserta, l’atmosfera più misteriosamente ovattata. Per quanto fredda e umida fosse la sera, con l’arrivo del buio e lo svanire delle decisioni del mattino, il desiderio fisico di mio padre si era fatto più forte, e perciò adesso egli appariva rosso e distratto; non era in grado di ricordarsi della sua risoluzione di porre fine alla relazione più di quanto potesse salire con la bicicletta sui tetti e sui camini dell’East End, lasciandosi per sempre alle spalle e ai piedi gli imperativi della carne.
Continuò ad avanzare lentamente nella nebbia scura e spaventosa, col corpo in fiamme per il desiderio di Hilda Wilkinson. Bruciava dentro come il carbone al centro di una fornace, ardeva e ribolliva nella nebbia, così che quando spinse la bici nel cortile del numero 27 era un uomo malato, un uomo febbricitante, non più responsabile delle proprie azioni.
Entrò in cucina. Vi ho già detto com’era fatto quel locale: era una stanza brutta e male illuminata, e bisognava esservi costretti per definirla «accogliente». Nondimeno, mia madre si era data da fare per renderla calda e piacevole. Le tende, vecchie e scolorite quanto il suo grembiule, erano tirate davanti alla finestra sporca sopra il lavandino; dal fornello veniva il profumo e lo sfrigolio del fegato che friggeva con le cipolle. Aveva lavato i piatti, spazzato il pavimento e perfino portato dall’ingresso la sua unica pianta, un’aspidistra avvizzita e morente. Pulendosi le mani nel grembiule, offrì a mio padre lo stesso piccolo sorriso che lui aveva visto al mattino — un’eternità prima, sembrava — e cercò nella dispensa una bottiglia di birra. Io, dal canto mio, ero a tavola e guardavo il soffitto; non volevo avere più alcun contatto con mio padre, dopo la sera prima. Lui rimase sulla soglia, battendo i piedi sullo zerbino mentre la nebbia entrava nella stanza girandogli attorno. Non rispose al sorriso di mia madre, non tentò neanche l’equivoco stiramento di labbra che era riuscito a produrre al mattino. Mia madre era in piedi vicino al tavolo e gli dava le spalle mentre gli riempiva un bicchiere di birra. «Chiudi la porta, Horace,» disse, «entra la nebbia. Ti ho fritto un bel pezzetto di fegato…» Fu interrotta da un’esplosione quando mio padre sbatté la porta sul retro. Attraversò il pavimento della cucina con la fronte aggrottata, sedette pesantemente a tavola (ignorandomi, come io ignoravo lui) e bevve il bicchiere di birra. «Non bere così alla svelta,» mormorò mia madre, trafficando con la stufa. Come risposta, mio padre riempì di nuovo il bicchiere e, nel farlo, la birra tracimò sulla tovaglia, un bel pezzo di tela ricamata, regalo di nozze della sua defunta suocera. «Oh, Horace,» gridò mia madre, «guarda cos’hai fatto! Stai un po’ più attento, per favore.» Ma il suo tono era ancora dolce; era decisa a non litigare.
Mio padre non se ne curò. Era un altro uomo, ormai, duro come il granito e freddo come il ghiaccio. Una nuova forma di rabbia gli ardeva dentro, bruciando con una fiamma fredda, dura, gemmea: la vidi nei suoi occhi quando si tolse gli occhiali, la dura fiamma che bruciava in quei suoi duri occhi chiari. Era un marito e un padre severo e burbero da anni, ma mai prima di allora avevo visto in lui una rabbia feroce e fredda come quella. Era come se avesse superato una specie di barriera, come se avesse perso la capacità di provare anche solo una scintilla di umana comprensione per mia madre. La tovaglia, i sorrisi, il fegato sfrigolante — niente di tutto ciò poteva toccarlo, avvertiva solo il bisogno di togliersela bruscamente dai piedi, e tanto forte era questa sensazione che riusciva a malapena a sopprimere la violenza che la mera presenza di lei suscitava in lui. Sedette a tavola senza togliersi la sciarpa o la giacca o gli stivali, senza guardarmi, senza arrotolarsi una sigaretta; sedette con una faccia tempestosa e sofferente e si scolò un bicchiere di birra dopo l’altro, finché la grossa bottiglia da un quarto di gallone fu quasi vuota. Lo sforzo che stava facendo la mia povera madre era immenso, e in cambio non otteneva nulla, se non la sua furia silenziosa. «Cosa c’è, Horace?» sussurrò, mettendo il piatto di fegato e cipolle in tavola e contemporaneamente scostando la pianta. «Cosa ti succede?» Rimase lì a guardarlo con la testa leggermente reclinata di lato mentre un reticolo di rughe dolorose e preoccupate solcava la sua fronte. Nervosamente continuava a passarsi le mani sul grembiule, anche se erano perfettamente asciutte. Mio padre fissò il fegato fumante, i pugni ai lati del piatto così stretti che le nocche erano come palle da biliardo intrappolate sotto la pelle. «Dimmelo, Horace,» continuò la voce, ma lui seguitò a fissare davanti a sé, lottando per trattenere un’ondata di pura rabbia nera, sforzandosi cupamente di non perdere il controllo, trattenendosi arcignamente. «Vattene da me!» urlava una voce nella sua testa, ma mia madre, la mia povera sciocca madre, non se ne andò, anzi si avvicinò ancora, allungò una mano e fece per toccarlo. Finalmente lui si voltò verso di lei — la cucina era silenziosa, perché la padella non sfrigolava più, c’era solo la goccia del rubinetto — e che faccia le mostrò! Mai dimenticherò quella faccia, finché sarò vivo: sopracciglia dolorosamente contratte, labbra arricciate sui denti, la bocca gelata in un orribile ghigno che esprimeva sia violenza sia disperazione, una sofferente disperazione di fronte a quella violenza, e gli occhi… Adesso i suoi occhi ardevano non di quella fiamma dura e gemmea, ma dello stesso dolore che gli distorceva la fronte e le labbra, l’intera fisionomia, era tutto lì, e mia madre lo lesse e fu sconvolta dalla sofferenza che c’era in lui e gli si avvicinò. «No!» disse mio padre, quando le sue dita gli toccarono le spalle. «No!» E poi, con un suono per emettere il quale quasi si strangolò, si alzò goffamente in piedi, facendo cadere la sedia alle proprie spalle con un tonfo, e attraversò la cucina diretto alla porta sul retro, e poi fuori nella nebbia. Mia madre rimase un istante a guardarlo con le dita premute sulle labbra. Poi gli corse dietro, nel cortile, verso il cancello aperto sul fondo e il vicolo retrostante. «Horace!» gridava. Ma era scesa la notte, la nebbia appariva più spessa che mai, e non riuscì a vedere niente, né le giunse alcun suono di risposta attraverso l’oscurità; dopo aver fatto pochi passi in una direzione, poi nell’altra, tornò nel cortile, quindi in cucina, e si chiuse la porta alle spalle. Nel calore della stanza si avvertivano ancora il freddo e l’odore della nebbia; restando un istante immobile, lei si abbracciò e rabbrividì. «Oh, Spider,» sussurrò; io ero ancora seduto al tavolo, sconvolto per l’accaduto. Lei fissò il piatto di fegato che si raffreddava e la macchia di birra versata sulla tovaglia, poi si lasciò cadere su una sedia, si prese la testa fra le mani e pianse.