Di nuovo pioggia, oggi. Mi piace la pioggia, ve l’ho già detto? Amo anche la nebbia, fin da quando ero un ragazzo. Con la nebbia mi piaceva sempre andare giù ai docks per ascoltare le sirene antinebbia che suonavano e si lanciavano richiami l’un l’altra, per guardare le pallide luci delle navi che scendevano la corrente con la marea. Era il manto dell’irrealtà spettrale che mi piaceva, il manto che essa disponeva sulle forme familiari del mondo. Tutto era strano nella nebbia: gli edifìci diventavano vaghi, gli esseri umani brancolavano e si perdevano, i segni di riferimento, i punti cardinali, in base ai quali essi navigavano, si scioglievano in niente, e il mondo si trasfigurava in una terra di ciechi. Ma se i vedenti diventavano ciechi, allora i ciechi — e, per qualche strana ragione, io mi sono sempre considerato un cieco — … i ciechi diventavano vedenti. Mi ricordo che mi sentivo a mio agio nella nebbia, felicemente a mio agio nelle tenebre e nell’oscurità che tanto confondevano il mio prossimo. Mi muovevo rapidamente e con sicurezza nelle strade avvolte dalla nebbia, senza essere visitato dai terrori che stavano in agguato dappertutto nel mondo materiale visibile; restavo fuori il più a lungo possibile con la nebbia. La notte scorsa, mentre sedevo scrivendo nella mia camera nella soffitta della signora Wilkinson, di quando in quando mi sono alzato per stirarmi le membra e fissare la pioggia che scendeva nell’alone del lampione di fronte, e mi sono accorto di quanto poco fossi cambiato, di come le mie emozioni nella pioggia quel giorno (ieri, voglio dire) erano simili ai sentimenti che provavo per la nebbia da ragazzo. Cosa c’è alla base di tutto questo, mi chiedo, qual è la forza che un tempo spingeva un bambino solitario a uscire nelle strade nebbiose e che ancora esercita la sua attrazione durante le forti piogge vent’anni dopo? Cos’è che nel confondersi e nell’oscurarsi del mondo visibile dava un simile conforto al ragazzo che ero allora e alla creatura che sono divenuto poi?
Strani pensieri, no? Sospirai. Mi chinai per tirare fuori il mio quaderno da sotto il linoleum. Niente! Tastai meglio. Una momentanea vertigine di terrore mentre assimilavo la possibilità che il quaderno non ci fosse. Furto? Naturalmente — da parte della maledetta signora Wilkinson, chi altri?! E invece c’era, solo un po’ più in fondo di quanto pensavo; un sollievo non da poco. Mio padre avanzava alla cieca nella nebbia, appena consapevole della sua situazione, il caos dentro di lui ancora più confuso per la birra che aveva appena bevuto. Un grande sollievo, anzi: cosa diamine avrei fatto se lei ci avesse messo su le mani? Il posto migliore dove nasconderlo è davvero sotto il linoleum? Non c’è un buco da qualche parte in cui possa infilarlo? I lampioni erano macchie di luce nella nebbia, scintille e schegge di una radiosità gialla frantumata che raccoglieva il bagliore di luce selvaggia dei suoi occhi, il fuggevole velo di bianco del suo naso e della sua fronte mentre procedeva. Da qualche parte ho visto un buco, lo so, ma dove, dove? Continuò ad avanzare finché vide un edificio illuminato e, come una farfalla attirata dalla fiamma, si avvicinò e si trovò fuori dal Dog and Beggar. Entrò, nel caldo asciutto del locale, e all’improvviso ebbe l’odore della birra e del tabacco nelle narici e il mormorio delle chiacchiere nelle orecchie. Non posso permettermi di correre rischi.
Per qualche istante rimase sulla porta, col petto che ansimava violentemente, mentre riprendeva il controllo della respirazione. I suoi occhi erano ancora folli, la pelle bagnata e lucida per l’umidità. Lasciò vagare lo sguardo nel locale, tra i tavolini rotondi sparsi qua e là; c’era un sottile strato di segatura sul pavimento di legno grezzo e, in piedi al banco, stava un vecchio che leggeva i risultati delle corse. Altri due vecchi sedevano a un tavolo vicino al caminetto, dove bruciava un fuocherello di carbone; le loro labbra lavoravano silenziosamente su grigie gengive sdentate. Tutte le chiacchiere provenivano dalla sala al di là della vetrata, da dove adesso giunse Ernie Ratcliff. Guardando mio padre mentre metteva una mano sottile su una spina per la birra, egli mormorò: «Benvenuto, Horace, se stai venendo qui.» E mio padre, con la passione ancora rabbiosa nel petto, annuì imbambolato un paio di volte e chiuse la porta. Come un sonnambulo si avvicinò al banco. Ratcliff non notò niente di strano — o, se lo fece, non era nel suo stile dirlo. «Brutto tempo,» osservò, «una vera zuppa. Una pinta della solita, vero, Horace?» Mio padre annuì e, pochi istanti dopo, portò la sua pinta a un tavolo e sedette guardando il fuoco.
Poi tutto d’un tratto sembrò svegliarsi, riconoscere dove si trovava. Prese il bicchiere di birra e bevve quasi tutta la pinta d’un fiato. Si alzò e tornò al banco. «Un’altra?» disse Ratcliff, amichevolmente. «È roba buona, questa.» E gli servì un’altra pinta.
Un’ora più tardi, mio padre era di nuovo fuori nella nebbia. Nel frattempo non si era veramente calmato, anzi. Il folle gorgo appariva in qualche modo placato, ma da quella pacatezza era emersa una decisione. «Decisione», dico: in realtà era un impulso, o un istinto, piuttosto che una decisione, una sorta di semplice attrazione cieca verso la soddisfazione di un desiderio — e non ho bisogno di dirvi di quale desiderio si trattava. Vacillando era emerso dal Dog and Beggar, si era abbottonato la giacca e stretto la sciarpa alla gola. Poi aveva diretto i suoi passi all’Earl of Rochester ed era stato rapidamente inghiottito dalla nebbia, più densa che mai.
Quando raggiunse l’Earl of Rochester, mio padre sembrava padrone di sé. Non barcollava, non strascicava le parole, ma in realtà era ubriaco e non meno preda dell’istinto di quando aveva lasciato il Dog. Il Rochester era pieno, quando arrivò; era un venerdì sera ed erano già quasi le nove. Spalancò la porta ed entrò rapidamente, un paio di refoli di nebbia lo seguirono nel suo ingresso. Un’ondata di chiacchiere e risate, e fumo e calore e luce, lo investì. Si fece strada a fatica fino al banco e ordinò del whisky. Dopo che gli venne servito, si voltò, cercando Hilda.
Lei stava a un tavolo d’angolo con Nora e gli altri. Sollevò gli occhi, poi decisa si alzò e si aprì un varco tra la folla verso di lui. Strano, questo: vi sareste aspettati che lo facesse andare da lei. Credo di saper spiegare il suo comportamento al Rochester quella sera, e molto di ciò che avvenne in seguito, perché penso che avesse saputo qualcosa su mio padre dopo gli avvenimenti nel vicolo la sera prima, qualcosa di preciso; al momento giusto, chiarirò tutto nei particolari. Adesso, però, arrivò urtando la gente, col volto arrossato e un bicchiere di porto tenuto alto in una mano, come un’insegna, e mentre si avvicinava scherzava con gli uomini che le facevano strada ridendo, come un mare agitato si apre davanti a una nave col vento in poppa. Poi gli fu accanto, e quando lui bevve il primo sorso di whisky il morso dell’alcol aggiunse carburante al desiderio che sentiva fin dal tramonto. Con uno stivale sulla sbarra di ottone nella parte bassa del bancone e gli occhi che non abbandonavano mai la faccia di lei, mio padre tirò fuori il tabacco. «Allora, idraulico,» disse Hilda (anche lei aveva bevuto e riconobbe la furia dentro di lui), «va meglio stasera, eh?»