Mio padre si stava arrotolando una sigaretta, la testa bassa e le dita impegnate con una cartina Rizla e l’Old Holbron, ma i suoi occhi erano sempre fissi su di lei. Quando ebbe finito di arrotolarla, la accese con un fiammifero e disse: «Vieni giù agli orti.»
Sì, lei avvertiva quant’era furibondo, e ciò la eccitava. «Giù agli orti?» disse, alzando le sopracciglia e tenendo la lingua appoggiata al labbro superiore. Lui si girò verso il bancone, annuì e finì il whisky. «Quando?» chiese lei.
Per qualche istante, lui rimase in silenzio, aspettando la cameriera. Ordinò un altro whisky e un porto dolce per lei. Rimasero lì fra gli avventori di passaggio, ed era come se dei fili invisibili li legassero l’uno all’altra. «Io vado adesso,» disse lui, «tu vieni fra un po’.»
Hilda si portò il liquore alle labbra. Lasciò che ci fosse una breve pausa. «D’accordo, idraulico,» disse, «non mi dispiace.»
Mi ricordo dove ho visto un buco: dietro un attacco del gas. Lì un tempo c’era un caminetto. Ci sono un focolare vuoto e una cappa; andranno benissimo, lo infilerò lì. Ma devo fermarmi per un momento, è tutta notte che avverto delle strane sensazioni all’intestino, quasi me lo torcessero come un tubo di gomma. Qualcosa di inconsueto sta succedendo laggiù, anche se non so esattamente cosa; probabilmente è qualcosa che ho mangiato.
Continuai a scrivere fino alle ore piccole, mettendo sulla carta la ricostruzione esatta e dettagliata di quella notte terribile, tutto ciò che avevo pensato durante i lunghi, vuoti anni di confino in Canada. Ero in camera mia quando, poco dopo che mio padre se n’era andato, mia madre mi chiamò dalle scale. Uscii sul pianerottolo; lei era vicino alla porta d’ingresso, col cappotto e la sciarpa sulla testa. «Vado fuori, Spider,» disse, «non ci metterò molto.» Si era data del rossetto sulle labbra, notai, e un tocco di fard sulle guance — si truccava così, quando usciva con mio padre il sabato sera. Era solo venerdì, ma dopo quello che era accaduto chiaramente non riusciva più a stare seduta in cucina. «Vado incontro a tuo padre,» disse: le ultime parole che le sentii dire nella sua vita. La vidi lasciare la casa dalla porta sul retro e la osservai mentre si fermava a infilarsi i guanti nel cortile. Aveva dimenticato la luce accesa in cucina, e per un attimo ne fu colpita: questo vidi dalla finestra della mia camera. Poi attraversò il cortile, una donnina azzimata che usciva incontro al marito, e ben presto fu inghiottita dalla nebbia e la persi di vista. Ma ero ancora con lei, vedete, ero ancora con lei mentre mi appoggiavo al davanzale e appannavo il vetro col mio respiro; ero con lei mentre percorreva il vicolo, tenendo stretta la borsetta, avanzando cauta nella fioca luce del lampione all’estremità della viuzza. Non sapeva se mio padre fosse al Dog, né che tipo di accoglienza avrebbe ricevuto se l’avesse trovato là, ma non poteva più restare seduta a piangere in cucina mentre lui era fuori a bere, pieno di un risentimento che non capiva ma che, apparentemente, senza alcuna colpa da parte sua, era diretto verso di lei. Raggiunse il Dog, entrò coraggiosamente nel locale e si diresse subito al banco. «’Sera, signora Cleg,» disse Ernie Ratcliff. «Cerca il suo vecchio? Era qui, ma credo che sia andato via.» Scrutò nel locale con i suoi occhietti da donnola. «No,» disse, «non c’è traccia di lui, signora Cleg.»
«Vedo,» disse mia madre. «Grazie, signor Ratcliff.» Stava per allontanarsi dal bancone quando un nuovo pensiero la colpì. «Signor Ratcliff,» disse, «sa dirmi dov’è l’Earl of Rochester?»
Vedo mio padre camminare per le strade nebbiose verso gli orti. Cammina lungo Spleen Street, i gasometri incombenti appena visibili sopra di lui, lungo Omdurman Close e oltre il ponte sulla ferrovia, una figurina scura che avanza nella nebbia, il cupo suono dei suoi stivali chiodati attutito sul selciato. Quando raggiunge il punto più elevato del sentiero si ferma; la nebbia è meno fìtta lassù, dove il terreno è più alto, e riesce a scorgere la luna e, lontano sulla sinistra, il primo dei casotti. Resta immobile per un momento, la sua figura confusa ma stagliata contro la notte grigio-nera con il fioco alone della luna, con gli orti alle spalle e, al di là, un labirinto di strade e vicoli che si allontanano verso i docks, da dove giungono le tristi sirene delle navi nella nebbia; pochi istanti più tardi, sta aprendo la porta del suo casotto, e poi è dentro e si fruga in tasca per trovare un fiammifero. È freddo e umido nel casotto, e nel buio, col forte odore di terra, è come essere in una bara, pensa. Poi il fiammifero brilla, accende la candela sulla cassa vicino alla poltrona imbottita di crine, e la fiamma proietta nel locale una luce fioca e incerta. Apre una bottiglia di birra e passeggia sul pavimento, un’ombra enorme e deforme alla lucina oscillante che la fiamma della candela getta sulle pareti di assi nude e sugli spioventi del tetto. Dalla penombra, sulla parete di fondo, l’occhio del furetto impagliato improvvisamente coglie la fiamma della candela e riflette nel casotto un lampo di luce argentata. L’alcol che mio padre ha in corpo non gli consente alcuna pausa, alcuna pace, in cui riflettere su quello che sta facendo; è in preda a una sorta di febbre, ancora posseduto da quell’unico istinto fisso.
Finalmente lei arriva. Mio padre la sente all’esterno e spalanca la porta. Bestemmiando e inciampando, Hilda percorre il sentiero a piedi nudi, tenendo le scarpe in una mano e una bottiglia di porto nell’altra. «Merda!» grida, mettendo un piede nel solco delle patate. Mio padre sogghigna, adesso, e Hilda vede i suoi denti bianchi che brillano nella luce fioca che esce dal casotto aperto mentre avanza per aiutarla. Esce dalla coltivazione e torna sul sentiero, e lui le mette una mano sulle spalle; immediatamente si aggrappano l’uno all’altra sotto la luna fumosa; immediatamente il calore che si è accumulato in mio padre fin dal tramonto si rinfocola mentre oscillano avanti e indietro, i due corpi stretti, lì davanti al casotto. Scoppi di risa soffocate di Hilda, con la faccia sepolta nel colletto di mio padre, poi lentamente si separano e si dirigono verso il casotto, entrano, la porta si chiude e il silenzio scende ancora una volta sugli orti.
(Dio buono, come vorrei che il silenzio scendesse su questa casa! Hanno ricominciato, e sembra che adesso stiano ballando, lassù; continuano per minuti senza fermarsi e poi crollano, in preda, sembra, alle risa. Sono salito in piedi sulla sedia a martellare il soffitto con la scarpa, ma non serve a niente, anzi sembra solo peggiorare la situazione. La signora Wilkinson dovrà rendermi conto di molte cose, e il disturbo che queste creature arrecano al mio sonno non è certo quella meno importante. E la pancia mi fa ancora male!)
Mia madre si immobilizzò appena dentro l’Earl of Rochester e si guardò intorno confusa. Il pub era pieno, e a quell’ora una sorta di follia collettiva aveva infettato i clienti che parlavano e ridevano e gesticolavano come caricature di uomini e di donne, come grotteschi manichini; mia madre, mite d’animo, e sobria, era profondamente intimidita. L’aria era pregna di fumo, quasi densa come la nebbia fuori; nella folla di queste persone, la cui rumorosità sembrava aumentare le loro dimensioni mentre diminuiva la loro umanità, lei non riusciva affatto a capire se mio padre fosse lì o no. Per quanto mite e sobria fosse, aveva deciso un piano d’azione: tenendo stretta la borsetta, incominciò a farsi strada, borbottando spesso delle scuse e guardandosi intorno man mano che avanzava.