Finalmente raggiunse il bancone. Aspettò pazientemente che una cameriera le prestasse attenzione. Ogni volta che se ne avvicinava una, però, qualche uomo corpulento e grasso arrivava alle sue spalle, la superava da dietro con immensi pugni rossi che reggevano bicchieri di birra e di liquori e incominciava a recitare una lunga complicata lista di bevande, e la cameriera era costretta a correre qua e là. Ciò accadde parecchie volte, eppure mia madre rimase al banco, minuscola in confronto a quei giganti ubriachi, finché ottenne la piena disponibilità di una giovane donna simpatica che le chiese: «Cosa posso servirle, cara?»
«Sto cercando mio marito,» disse mia madre. Un sogghigno dell’uomo al suo fianco e una serie di commenti gridati dai suoi compagni mentre lui ripeteva quelle parole.
«Chi è suo marito, cara?» disse la cameriera non senza simpatia, alzando la voce per farsi sentire al di sopra della confusione.
«Horace Cleg.»
«Chi?» disse la cameriera.
«Horace Cleg,» disse mia madre.
«Horace!» gridò l’uomo al suo fianco. «Ti cercano!»
«È qui?» chiese mia madre, voltandosi verso quell’uomo.
«No, se ha un po’ di buon senso, no!» disse l’uomo, e tutti risero rumorosamente.
«Horace Cleg?» disse la cameriera. «Non lo conosco, cara. È un cliente fìsso?»
«No,» disse mia madre. «Perlomeno, non credo.»
«Mi dispiace, cara,» disse la cameriera. «Posso servirle qualcosa?»
«No, grazie,» disse mia madre e, allontanandosi dal bancone, riattraversò la folla diretta verso la porta. Un attimo dopo, si trovò di nuovo fuori nella nebbia.
Aveva attraversato il ponte sulla ferrovia ed era ferma sul sentiero che correva lungo gli orti; fissava il casotto di mio padre. Il terreno retrostante scendeva ripido e il tetto spiovente si stagliava netto tra le folate di nebbia, contro il cielo notturno, in cui la luna adesso sembrava un’escrescenza piuttosto che un globo, come un’enorme patata. Dal contorno della porta filtrava una tenue luce tremula, per cui mia madre sapeva che lui era lì; ciò che la tratteneva fuori, sul sentiero, erano gli strani suoni soffocati che provenivano dal casotto: chiaramente non era solo.
Dopo parecchi minuti ci fu silenzio, e mia madre, infreddolita dalla notte, incominciò a pensare che poteva molto semplicemente percorrere il sentiero e bussare alla porta. Ma ancora non si mosse, ancora rimase lì rabbrividendo al cancello, fissando il casotto e stringendo con forza la sua borsetta. Dalle strade dietro agli orti proveniva il desolato abbaiare di un cane e dal fiume giungeva il suono delle sirene; poi, d’improvviso, alle sue spalle, passò un treno merci diretto in città e la fece sobbalzare. Non senza un grande sforzo e un grande coraggio, aprì il cancello e percorse rapidamente il sentiero fino alla porta.
Da ragazzo, ero afflitto da incubi, e quella notte sognai il canale dei gasometri. Una terribile tempesta infuriava nella mia mente addormentata: l’acqua era più nera che mai, ribolliva violentemente, e lampi di luce esplodevano rumorosamente vicino alla mia testa, fra nuvole dense e basse, neri oggetti gonfi che lampeggiavano e fumavano agli orli. Io ero in piedi vicino alla riva del canale quando uno scheletro sorse dall’acqua, trasportato sulla cresta di un’onda: uno scheletro con dentro una specie di creatura viscida, come una foca, imprigionata nella cassa toracica. Il muso peloso di questa orribile cosa nera sporgeva fra le ossa, rivelando una serie di minuscoli denti bianchi mentre latrava pateticamente verso di me; la creatura si levava sopra le acque quasi alla mia portata, poi sprofondò, continuando a latrare terribilmente, e io vidi che tutt’intorno a me il canale continuava a scagliare verso l’alto cose orribili, un enorme pesce grigio che si dibatteva dentro una rete a forma di preservativo, la cui punta gli si era attaccata agli occhi e alla bocca come l’estremità di una calza; uno stivale fatto di minuscole ossa bianche; altre foche baffute, alcune delle quali intrappolate e impegnate a battersi con delle reti e altre con facce umane che gemevano mentre cavalcavano sulle onde nere, prima di inabissarsi di nuovo. A ogni ondata che si rompeva, dalle profondità emergeva qualche nuovo orrore e mi si mostrava, e io sapevo con assoluta certezza e con assoluto terrore che non sarei riuscito a restare in piedi sulla riva, ma sarei caduto fra quelle mostruosità latranti. Poi, all’improvviso, l’immagine di mio padre in maniche di camicia e basco che scavava una buca in mezzo alla sua coltivazione di patate. C’era nebbia là fuori, ma non abbastanza per nascondere l’escrescenza butterata e bitorzoluta della luna. Sulla porta del casotto vidi Hilda appoggiata allo stipite con la sua pelliccia da quattro soldi sulle spalle; fumava, e la candela dall’interno la circonfondeva di una fioca luce. Dopo qualche minuto, mio padre si inginocchiò e, con enorme attenzione, tirò su dalla terra una pianta di patate, tenendo con una mano il fusto verde e con l’altra il rizoma e le radicine che sporgevano intrecciate. Lo posò accanto a sé — che strano vedere la tenerezza con cui maneggiava la pianta! L’escavazione continuò, la fila di patate di fianco al buco divenne più lunga; Hilda scomparve nel casotto e ne uscì con una bottiglia di porto e una tazza da tè. Si udiva il suono delle sirene proveniente dal fiume. Poi vidi che mio padre era nel buco fino alle spalle, madido di sudore malgrado il freddo della nebbia. Buttò fuori la vanga, quindi con qualche difficoltà uscì anch’egli. La terra si sbriciolava sotto le sue dita, e parecchie volte scivolò indietro. Hilda si avvicinò alla buca e, sempre stringendosi il cappotto di pelliccia sulle spalle, guardò dentro. Dei vermi, appena visibili, scintillano alla luce della luna, si contorcono sulle ripide pareti di terra. Adesso mio padre emerge dal casotto, reggendo un peso parzialmente avvolto in un sacco insanguinato. È un corpo, la testa coperta dalla tela fermata intorno al collo con uno spago. Lo depone di fianco al buco, poi si rialza e guarda Hilda, immobile fra le piante di patata sradicate. Lei si stringe nuovamente la pelliccia sulle spalle. Mio padre tocca il corpo con lo stivale ed esso rotola nella tomba, fermandosi sulla schiena con un braccio bloccato di sotto e l’altro gettato disordinatamente sulla testa insaccata, come una bambola di pezza. Hilda si avvicina all’orlo della buca e col piede fa cadere dentro un po’ di terriccio; poi rabbrividisce e ritorna al casotto. Mio padre prende la vanga e incomincia a riempire la fossa; con la massima cura, rimette a posto le piantine di patata.
Mi svegliai urlando, scivolai fuori dal letto e corsi sul pianerottolo, verso la camera dei miei genitori, ma il loro letto era vuoto, per cui mi precipitai giù per le scale e lungo lo stretto corridoio, sempre al buio, fino in cucina.
Aprii la porta. Mio padre era seduto a tavola con una donna che non avevo mai visto prima. «Cosa c’è?» disse. «Cosa ti succede?» Si alzò e mi condusse fuori dalla cucina, nel corridoio, chiudendosi la porta alle spalle. «Torna su,» disse, guidandomi nel corridoio. «Torna a letto, Dennis.»
«Dov’è la mamma?» dissi, cercando di resistere alla sua spinta.
«Coraggio, figliolo, torna a letto.»
«Dov’è la mamma?» gridai. «Non voglio tornare a letto, ho fatto un sogno!»
«Basta,» disse, spingendomi nel corridoio.
«Voglio la mia mamma!»
«Non farmi arrabbiare, Dennis! Tua madre è in cucina!»
«Non è vero!»
«Vai su!» sibilò.
«Mi fai male!» Mi teneva i polsi stretti, spingendomi sulle scale; le labbra arricciate gli scoprivano i denti. «Mi fai male,» piagnucolai — e lui mi lasciò andare e si appoggiò al muro in fondo alle scale. «Torna a letto,» disse calmo, tutta la sua rabbia improvvisamente dissipata. «Puoi lasciare la luce accesa. Verrò a vederti più tardi.»