Anch’io mi placai. Incominciai a salire le scale. A metà, mi fermai e mi voltai. «Chi è quella signora?» dissi.
Lui alzò lo sguardo verso di me, si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi con il pollice e l’indice. «Quale signora?»
«Quella in cucina.»
«Non farmi arrabbiare, Dennis. Vai su adesso.» Mentre salivo le scale, lui tornò in cucina e si chiuse la porta alle spalle.
Fu solo verso Natale che compresi davvero che mia madre era morta. Nonostante ciò, gli avvenimenti delle ore successive erano vividi nella mia mente: non solo quelli a cui avevo assistito, ma anche quelli che, più tardi, in Canada, fu tanto doloroso ricostruire. Horace e Hilda andarono a casa insieme, in silenzio, e mentre percorrevano le vie strette, vuote e nebbiose, lei si appoggiò a lui che, per la prima volta, poté sostenerla, metterle un braccio intorno alle spalle e sentire il suo peso. Avendo ucciso, si sentiva lucido e calmo, esilarato perfino, anche se quelle emozioni dovevano la loro esistenza più a un confuso stato di shock che a una genuina emancipazione; mio padre era uno sciocco a pensare che gli sarebbe stato risparmiato il senso di colpa, e in effetti questo arrivò ben presto.
Hilda dormì con lui a Kitchener Street per il resto della notte. Appese la gonna e la camicetta nell’armadio, fra i vestiti di mia madre, poi buttò la sua biancheria intima su una sedia e si infilò nel letto. Mio padre bramava un rapporto, ma lei non gli permise alcun contatto. Presto, la mattina dopo, io scivolai silenziosamente nella camera e rimasi vicino al letto, osservando la massa del suo corpo sotto le lenzuola dove avrebbe dovuto esserci mia madre, e il cuscino dove i suoi capelli si allargavano in confusi ammassi gialli con le radici nere. La luce che filtrava dalle tende era grigia e fioca, e la stanza puzzava di alcol. Mio padre si svegliò con un sobbalzo. La sua prima sensazione fui io in piedi vicino al letto; la seconda, un terribile gusto di catarro nella bocca. Poi gli tornò in mente la notte, si girò e gettò un’occhiata al corpo di Hilda al suo fianco, nel letto. Poi mi guardò di nuovo, e io vidi che era improvvisamente molto spaventato e voleva qualcosa da bere; ma non c’era mai niente in casa (per l’ostinatezza di mia madre), a parte una bottiglia di birra di quando in quando. Sentì l’impulso di voltarsi verso Hilda in cerca di conforto, ma lei sembrava aver assunto per associazione il colore degli avvenimenti notturni e del suo colpevole terrore. Alla fine, si ricordò di una piccola bottiglia di whisky che aveva comprato il Natale prima e che non aveva mai bevuto. Ero già rientrato in camera mia quando lui lasciò il letto, si infilò la maglietta e i pantaloni e scese per uscire al gabinetto. Tornò in cucina pochi minuti dopo, poi andò in salotto, dove trovò il whisky nell’armadietto. Sedette nell’oscurità di quel sabato mattina: era un’ultima stranezza, l’uso del salotto; non l’avevo mai visto prima seduto lì da solo. Il salotto era per gli ospiti, e i miei genitori avevano ospiti molto di rado — non erano persone particolarmente socievoli.
Un’ora più tardi, mio padre si sentì un po’ più sicuro e pensò che poteva salire a trovare Hilda. Il whisky aveva confuso i netti contorni delle sue azioni notturne; il terrore, diventato per qualche minuto quasi intollerabile, era diminuito, sostituito da una sorta di fragile fiducia nel fatto che se la sarebbero cavata (doveva aver pensato, credo, fin dall’inizio in termini di «loro», in termini di una mutua, condivisa responsabilità). Lentamente, pesantemente, salì le scale; io ero in camera mia, alla finestra, col mento appoggiato alle mani. La mattina era inoltrata, ma la nebbia incombeva ancora sulla città e l’avvolgeva in una sorta di crepuscolo. Mentre lui era giù, io ero scivolato sul pianerottolo e avevo dato un’altra occhiata alla donna nel letto di mia madre. Era ancora profondamente addormentata e russava; a un certo punto, la sentii mormorare alcune parole, ma erano indistinte. La camera era buia e vi stagnava denso il terribile puzzo del porto dolce; ma c’era un altro odore, lo sentii subito, esperto com’ero del profumo di mia madre: anche questo era un odore femminile, quello di Hilda, un odore caldo, carnoso, soverchiato da un forte profumo e dalle emanazioni della sua pelliccia che, impregnata di nebbia, era appesa alla porta dell’armadio. Aleggiava anche l’odore dei suoi piedi, e l’effetto complessivo era quello di un grosso animale femmina, non troppo pulito, forse pericoloso. Nel covo, nella tana di questa creatura adesso era entrato mio padre, fortificato dal whisky; io ascoltai attentamente dalla mia camera, la porta socchiusa e l’orecchio premuto contro di essa. Lo sentii spogliarsi e infilarsi nel letto.
Lei gli voltava la schiena, poiché giaceva guardando la finestra con le tende e i gasometri fuori. Allegramente mio padre incastrò il proprio corpo al suo (sentii le molle che cigolavano), formando con la pancia e l’inguine un incavo per il suo sedere. Con un braccio posato leggermente su di lei, premette il viso nei suoi capelli (che puzzavano di fumo di sigaretta) e cercò di addormentarsi.
Non riuscì a dormire. Il terrore rinacque in lui. Lei si stirò, e io sentii un’oscillazione in quel grande letto. Silenziosamente, strisciai fuori dalla mia camera e sul pianerottolo, finché non fui fuori dalla porta, che lasciava aperto uno spiraglio (non si chiudeva mai bene, quella porta). Sempre in silenzio, mi inginocchiai e sporsi la testa oltre lo stipite della porta, in maniera da vederli. Hilda si era girata nel letto e, senza svegliarsi, aveva accolto mio padre fra le sue braccia. Di nuovo, mormorò parole indistinte e il respiro pesante ricominciò, il ventre si alzò e ricadde, e mio padre, afferrato fermamente, giacque finalmente appagato, e ben presto si addormentò anche lui.
Per alcuni minuti, guardai la coppia dormiente, poi strisciai indietro in camera mia e mi immersi nella mia collezione di insetti, attento a quando i due si fossero svegliati. Suppongo che volessi sentire qualcosa, qualcosa che mi aiutasse a scoprire dove mia madre — la mia vera madre — era finita.
Mio padre si svegliò a metà del pomeriggio. La camera era ancora buia, perché le tende erano tirate e tutto ciò che filtrava dalle fessure era il grigiore della nebbia persistente. Anche Hilda si era svegliata, e separava le sue membra da quelle di mio padre, e nel farlo il grande materasso snervato ondeggiava sotto di lei, le molle e le giunture del vecchio letto scricchiolavano e stridevano, e ancora una volta io scivolai sul pianerottolo fino alla porta della loro camera. Hilda si stirò le membra, sbadigliò; poi, volgendosi verso mio padre, sospirò: «Idraulico.» Lo guardò mezzo addormentata. Era caldo nel letto, e immaginai che lui avesse voglia di lavarsi la faccia e i denti (io ce l’avevo), ma Hilda l’aveva preso fra le braccia — e un attimo dopo si mise a muoversi. Inginocchiato vicino alla porta, vidi del movimento fra le lenzuola; poi all’improvviso lui fu sopra di lei e, nell’oscurità, fece dei loro due corpi un unico mucchio sotto quelle coltri calde. Una piccola pausa quando lei si infilò un cuscino sotto il sedere, poi le coperte si tesero, si sgonfiarono e si gonfiarono, si appiattirono e si innalzarono, mentre l’intera massa oscillante gemeva come una sola creatura, e i cigolii e gli stridori di quella vecchia macchina notturna assumevano un ritmo che colpì stranamente il giovane Spider; e poi, come una balena sportiva, questa collina cigolante si capovolse (roche risate, grugniti sommessi durante la goffa manovra) e la bionda testa di lei fece capolino dalla collina e si voltò verso la finestra col mento alzato, e si sollevò e ricadde, si sollevò e ricadde, come nuotando in un mare agitato, e gemette. Adesso il vecchio letto scricchiolava e cigolava sotto di lei come gli alberi e le bome di un galeone. Il suo gemito era come il soffiare del vento fra le vele quando avanzava, alzandosi e immergendosi, il mento teso verso il soffitto e poi ricadente sui seni, le grosse braccia bianche come colonne sotto di lei mentre i biondi riccioli disordinati si riversavano in avanti a nascondere la sua faccia agli avidi occhi dell’osservatore Spider. Poi finalmente si fermò, esalò un gemito sostenuto che poteva essere di piacere o di dolore, dopo di che l’immobilità regnò nella camera: l’unico suono era un esausto ansimare che svanì progressivamente con il passare dei minuti. Silenzio. Poi lei si sollevò da mio padre e si sedette sull’orlo del materasso, guardando la porta coi piedi per terra, e sbadigliò.