Io ero ancora in ginocchio vicino alla porta e osservavo quella donna; non osavo muovermi. Dietro di lei, nel letto, mio padre mormorò qualcosa; vidi che lei scuoteva la testa. Soprappensiero si grattò un orecchio, e questo fece sobbalzare i suoi seni. La pancia le si gonfiò come un bianco cuscino molle; io ero affascinato dal triangolo di morbida carne sotto la piega del ventre e dal piccolo ciuffo di pelo nero fra le grandi cosce. Di nuovo sbadigliò e si girò verso mio padre, e io mi ritirai dalla soglia. Un attimo dopo, la sentii attraversare la stanza diretta all’armadio, sentii muoversi gli ometti mentre frugava fra i vestiti di mia madre; con passi silenziosi, tornai in camera mia.
Più tardi esplorò la casa. La guardai percorrere con precauzione le nostre strette scale, scendendo con una specie di cauto movimento laterale in un vestito blu a pois bianchi stretto in vita: il vestito della domenica di mia madre. La vidi mentre andava giù, col sedere sporgente e una grassa mano sulla ringhiera; ascoltando il ticchettio dei suoi tacchi, non potei fare a meno di ricordare il dolce rumore strascicato che facevano le ciabatte di mia madre quando si muoveva per casa. Si era messa sulle labbra il rossetto di mia madre e si era sistemata i capelli con il suo pettine; il profumo, però, era proprio quello di Hilda. Il suo ventre prominente tendeva il sottile tessuto del vestito blu a pois: era una pancia generosa e carnosa che, sui fianchi, svaniva nella rotondità ferma e decisa delle cosce, tra le quali il tessuto si attaccava come un velo o una cortina che nascondesse una concavità oscura. «Due di sopra, due da basso, vero?» disse quando mio padre scese le scale dopo di lei (aveva già ficcato il naso nella mia stanza, ma non mi aveva visto, ero sotto il letto). Poi, senza aspettare la sua risposta: «Mi piace una casetta come questa, Horace, l’ho sempre desiderata: Nora può confermartelo.» Quindi — notate la nonchalance — aggiunse: «È tua, eh?»
«È tua, eh?»: questo è significativo, ci torneremo sopra più avanti. Per ora è sufficiente dire che Hilda Wilkinson, una volgare prostituta, aveva trascorso tutta la vita passando di casa in casa, spesso nel cuore della notte; per lei, un uomo che possedeva la propria abitazione era un partito attraente — e risultava ancora più attraente se la moglie di quell’uomo era scomparsa! E continuò, con la terribile voce che rimbombava per l’intera casa, le sue motivazioni chiare come il giorno: «Investi i tuoi soldi in proprietà immobiliari, è quello che ho sempre detto. Questo è il salotto, vero, Horace? Oh, è proprio una bella stanza, si possono ricevere gli amici, qui.»
Horace e Hilda passarono un’ora nel salotto e finirono il resto del whisky. Da quello che sentivo, si trovava a suo agio lì: sembrava che soddisfacesse qualche sua nascosta aspirazione alla nobiltà. Lo riempi fino all’eccesso con la sua presenza; ammirò il modesto caminetto con il focolare di ottone lucente, l’attizzatoio e gli alari, ed espresse soddisfazione anche per la cappa piastrellata, lo specchio ovale che c’era sopra e le cinque oche di ceramica disposte in diagonale sulla parete. Le piacquero anche il disegno della tappezzeria e le fodere di chintz dei cuscini. La vetrinetta con i tre pezzi in ceramica di Wedgwood: anche questa le andò a genio. «Mi piace un salotto, Horace,» disse più di una volta, «dà rispettabilità a una casa.» Che cosa pensava mio padre di questo, ottenebrato com’era dal whisky, tutto un maelstrom di sensi di colpa man mano che, col passare delle ore, come un virus l’omicidio mordeva sempre più a fondo i tessuti dei suoi organi vitali?
C’era della pancetta in casa e, dopo aver finito il whisky, andarono in cucina. Consumarono la colazione mentre scendeva la sera; io avvertii l’odore della pancetta dal piano di sopra, e ciò acuì lo stimolo della mia terribile fame, perché non avevo mangiato niente in tutto il giorno, ma non volevo scendere. Sedetti alla finestra e fissai la luce della cucina, che dissolveva appena l’oscurità del cortile. Vidi Hilda uscire dalla porta sul retro e fui tentato allora di andare giù, ma la prospettiva di incontrarla quando tornava mi distolse dall’idea. «Dovresti sistemare il gabinetto, Horace,» disse, rientrando. «Bella roba che il gabinetto di un idraulico non funzioni!»
Dieci minuti dopo, andarono all’Earl of Rochester. Non c’era più pancetta, per cui dovetti accontentarmi di pane e sugo.
Sarebbe mai finita quella terribile giornata? Non riuscivo più a pensare alla lunga serata che passai da solo in casa con l’odore di Hilda fìsso nelle narici. Uscii nella nebbia dopo aver mangiato pane e sugo e mi diressi al canale, dove passeggiai in preda alla stanchezza, a tratti disperato, a tratti piangendo furiosamente, tirando pietre nell’acqua nera e ottenendo solo un modesto conforto dalla nebbiosa oscurità della notte. Dov’era mia madre? Dov’era finita? Tornai al numero 27 dopo le nove ed entrai dalla porta sul retro; la casa era vuota. Mangiai dell’altro pane col sugo, poi andai in camera mia e presi di nuovo la mia collezione di insetti. Sentii mio padre rientrare tardi, solo; rimase a sedere nella cucina bevendo birra finché non si addormentò. Io scivolai giù verso mezzanotte e lo vidi accasciato su una sedia vicino alla stufa, ancora col berretto e la sciarpa, e una sigaretta attaccata al labbro inferiore anche nel sonno.
Il giorno dopo era domenica. Come d’abitudine, andò nell’orto. La nebbia si era in qualche misura dissipata, era una mattina fredda e nuvolosa, e sembrava che più tardi potesse piovere. Mentre passava in bicicletta per le strade deserte era un uomo in profonda crisi: non erano trascorse neanche trenta ore dall’omicidio e non si era ancora abituato al nuovo territorio che occupava. L’omicidio lacera un uomo, lo scompone in mondi diversi, lo blocca, rendendolo prigioniero del senso di colpa, della complicità e della paura di essere tradito. Lui non aveva pienamente compreso niente di tutto ciò, perché era ancora in parte sotto shock; spinse la bicicletta oltre le finestre chiuse dietro le quali dormiva un mondo da cui adesso era esiliato per sempre, anche se questo — come ho detto — non gli era ancora ben chiaro.
Ma le cose cambiarono rapidamente! Mi è sempre sembrato che ci fosse una sorta di giustizia poetica nel fatto che l’orto, nel quale mio padre tanto spesso era fuggito dalla vita domestica, dovesse ora caricarsi dell’orrore dell’omicidio di mia madre. Lui lo avvertì solo vagamente mentre pedalava per le strade quella domenica mattina, ma avvicinandosi al ponte sulla ferrovia dovette farsi più forte l’impulso di invertire la marcia e allontanarsi il più possibile da quel posto. Ma non fece dietro-front, perché era anche consapevole di una vaga, perversa eccitazione alla prospettiva di rivedere il terreno sotto cui giaceva lei.
Niente, però, l’aveva preparato al colpo che lo investì quando aprì il cancello e rimase fermo in fondo al sentiero. Per qualche istante, esso gli turbinò intorno con un movimento tremulo e oscillante, come se l’intero orto fosse diventato un campo di forze attive in uno stato di intensa perturbazione. Le sue percezioni erano confuse: il casotto e le verdure sembravano annerirsi davanti ai suoi occhi e, prima che potesse fare un passo sul sentiero, avvertì una specie di crollo e di brivido che lo pervadeva, e poi nei pochi interminabili istanti che gli ci vollero per raggiungere il casotto l’aria improvvisamente buia, umida, del mattino si riempì di piccoli germi maligni; passare attraverso queste nuvole gli richiese non poca determinazione. L’effetto fu in qualche modo attenuato quando raggiunse l’interno della costruzione e chiuse la porta sulla malevolenza dell’orto, che fuori non cessò neppure un attimo, per tutta quella domenica.