Sì, arrotolo le mie infinite sigarette; nel farlo mi guardo le dita, queste lunghe dita ragnesche che spesso non mi sembrano affatto mie; sono macchiate di giallo scuro sulla punta; le unghie sono dure e giallastre e cornee, e si incurvano verso la fine come artigli, artigli che la signora Wilkinson sembra ora decisa a tagliarmi con le forbici da cucina. In questi giorni, le mie lunghe, gialle dita artigliate sono sempre leggermente tremanti, non so proprio perché. Comunque era un posto squallido, la Londra della mia giovinezza, una rete compatta di isolati scuri e di stretti passaggi, e a volte quando riconosco uno dei suoi tratti torno con l’immaginazione a quei giorni senza neanche accorgermi di quello che sto facendo. Per questo ho intenzione di tenere un diario, per fare un po’ d’ordine nel caos di ricordi che la città continuamente suscita in me. La data di oggi: 17 ottobre 1957.
Un’altra mattina grigia e triste. Mi sono alzato presto per scrivere il diario (dentro di me, non sono molto tranquillo sul fatto di nasconderlo nel comò; più tardi forse tenterò di infilarlo sotto il linoleum), e tutte le volte che volgevo gli occhi alla finestrella sporca sopra il tavolo vedevo solo una spessa coltre di grigiume che diventava leggermente più chiara man mano che da qualche parte dietro di essa, al di là del Mare del Nord, il sole sorgeva in un cupo cielo invernale. Questa casa spesso mi sembra una nave, l’ho già detto? È rivolta a est, capite, verso il mare aperto, e io sono qui, in cima al lato orientale, come un marinaio sulla coffa, mentre scivoliamo seguendo la corrente con il nostro carico di anime morte!
Consumiamo i pasti in cucina, qui. La signora Wilkinson ha una campanella; si mette ai piedi delle scale e la scuote, e lentamente le anime morte emergono dalle loro stanze e scendono con le facce vuote e le membra rigide, e quando compaio io — sono sempre l’ultimo, vivendo al piano più alto — sono già tutte sedute intorno al tavolo della cucina a mangiare il porridge in silenzio. La cuoca è una donna straniera piccola e tarchiata, con ciuffetti di baffi neri; è in piedi davanti alla cucina economica con le spalle alla stanza e guarda nelle sue pentole fumiganti di fegatini e frattaglie, fumando sigarette e pulendosi il naso col dorso della stessa mano con cui mescola lo stufato.
Prendo posto in fondo alla tavola. Sulla tavola è distesa una tovaglia di plastica pesante (come tela cerata), già sporca di pezzetti di porridge e macchie di latte — non abbiamo del vero latte qui, la signora miscela una polvere, per cui è una specie di liquido con dentro dei grumi galleggianti. Tazze e piatti sono di porcellana bianca e spessa, e ci è consentito usare veri coltelli e forchette. La signora Wilkinson non è mai presente; a meno che non abbia qualcosa da dire, sta nel suo ufficio sul corridoio davanti all’ingresso. Tento un cucchiaio di porridge: è velenosamente cattivo. Le anime morte non mi prestano alcuna attenzione. Con stupefatta, silenziosa astrazione, divorano fameliche il porridge e sorbiscono il tè, e nel farlo sfuggono loro vari rumorini corporei, piccole scoregge e rutti ecc. Una dopo l’altra finiscono e se ne vanno nel salotto. La donna straniera raccoglie i piatti e butta il porridge avanzato in un bidoncino vicino alla cucina economica. Le sue pentole di verdure e interiora stanno già bollendo energicamente; senza togliersi la sigaretta dalla bocca, si china annusando per dar loro una mescolata; la cenere cade nello stufato.
Dopo colazione, cerco di uscire più alla svelta che posso. Non è facile, perché la signora Wilkinson siede nel suo ufficio vicino all’ingresso come il tricipite cane infernale. «Signor Cleg!» abbaia, alzando gli occhi dalle sue carte. Io mi blocco; quella donna mi terrorizza. Resto immobile, oscillando con aria colpevole mentre lei si alza, si toglie gli occhiali e libera la sua grossa forma passando di fianco alla scrivania. «Signor Cleg!» grida. È una donna con una voce davvero forte! Non riesco a guardarla negli occhi. Si appoggia allo stipite della porta dell’ufficio. I secondi passano con torturante lentezza. Lei ha una penna tra le dita grosse e forti; ci gioca, e immagino che la spezzerà in due — a mo’ di avvertimento! «Non arriveremo di nuovo in ritardo per il pranzo, vero, signor Ceg?»
Io borbotto qualcosa, con gli occhi rivolti a terra, poi alla parete — da qualsiasi parte tranne che sulla sua faccia dura. Alla fine mi lascia andare. «Buona passeggiata, signor Cleg,» dice, e io scivolo via. Non sorprende quindi, no?, che io faccia cadere il mio tabacco per terra quando raggiungo ancora una volta il rifugio della mia panchina, tanto mi tremano le mani? Non sorprende che io debba godermi qui la mia solitudine, la mia solitudine e i miei ricordi — è un’energumena, quella donna, un’arpia, e grazie a Dio ben presto non la vedrò più.
Quando ero un ragazzo vivevamo in Kitchener Street, che è dall’altra parte del canale, più a est. La nostra abitazione era al numero 27 e, come tutte le altre case della strada, aveva due stanze al piano di sopra, due stanze al piano di sotto e un cortile sul retro, circondato da un muro con un cancello che dava sul vicolo, e un casotto con il gabinetto. La porta d’ingresso aveva in alto una lunetta sporca a forma di sole calante; c’era anche un deposito per il carbone raggiungibile attraverso una porta che si apriva sul corridoio da basso e dava su una ripida rampa di scale. Tutte le stanze della casa erano piccole e in disordine, con soffitti bassi; le camere da letto erano state tappezzate molti anni prima e la carta era umida e si staccava, e appariva molto scolorita in alcuni punti; le grandi macchie che si allargavano con il loro odore di intonaco ammuffito (lo sento ancora adesso!) formavano strane figure sul disegno floreale e stimolavano nella mia immaginazione infantile molti terrori fantastici. Il corridoio da basso andava dall’ingresso al salotto (che veniva usato raramente), oltre la porta della dispensa, fino alla cucina, dove sopra il lavandino, di fianco alla porta sul retro, c’era una finestra che guardava nel cortile. La mia camera era proprio sopra la cucina, per cui anche la mia finestra dava sul cortile, e anche sui vicoli dietro e sul retro delle case della strada parallela. Forse l’unica cosa per cui la nostra casa era diversa dalle altre di Kitchener Street stava nel fatto che noi ne eravamo proprietari: i genitori di mia madre erano commercianti e avevano comperato la casa per i miei genitori quando si erano sposati. Mi ricordo che questo si tirava in ballo quando mia madre e mio padre litigavano in cucina di notte, perché mio padre era convinto che i genitori di mia madre lo guardassero dall’alto in basso, e credo che fosse vero. Nondimeno, era raro che una famiglia possedesse la propria casa, a quel tempo, e ciò doveva essere fonte di invidia per i vicini; forse questo aiuta a spiegare il curioso isolamento in cui vivevano i miei genitori all’interno di quelle strade e di quei vicoli sovraffollati.