Выбрать главу

(Conosco questa sensazione, anch’io sono stato tormentato in quel modo, anch’io li ho sentiti scattare e sbattere dietro di me come i denti di un cane, come una nuvola di moscerini ronzanti: anzi, raramente questo suono è assente, anche se di solito, per fortuna, risulta debole, più che altro un ronzio.)

Mentre mio padre sperimentava la prima ondata di terrore proveniente dal terreno del suo orto, io ero tornato in camera mia, al numero 27. Non ero ancora a conoscenza del fatto che mia madre fosse morta, sapevo solo che non era a casa, e che una donna grassa aveva preso il suo posto nel letto dei miei genitori. Ero di nuovo impegnato con la mia collezione, che mi aiutava a distrarmi da tutte le preoccupazioni e le perplessità che quei cambiamenti producevano. Da ragazzo collezionavo insetti, soprattutto mosche, che fissavo dentro a scatole in composizioni artistiche da me dette «tableaux». Foglie morte di vari colori riempivano le scatole che avevo realizzato in autunno, ma ormai molte di esse erano diventate così fragili che si erano rotte in frammenti e si erano staccate dagli spilli, formando dei mucchietti in fondo ai contenitori. Li buttai via, come le penne e le piume, e presi i materiali nuovi che avevo raccolto con cura e che tenevo in un cartone sotto il letto. In quel cartone c’erano cose di ogni genere, tutto ciò che sembrava potenzialmente utile, e non facevo distinzioni fra elementi naturali, penne e piume ecc, e fiammiferi, tappi di bottiglia, pezzi di spago, il cartoncino e la stagnola dei pacchetti di sigarette vuoti. Provai con alcuni pezzi di guscio d’uovo e anche con un groviglio di capelli biondi che avevo tolto dal pettine di mia madre quel pomeriggio, e con qualche lisca di pesce, qualche pinna. Si trattava di un’associazione curiosa e non ero sicuro se mi piacesse o no. A un certo punto del pomeriggio, così occupato, sentii dei passi all’esterno. Mi alzai dal pavimento e andai alla finestra, e nel cortile c’era la donna che avevo visto a letto con mio padre.

Mi allontanai dalla finestra. Decisi che non l’avrei lasciata entrare, non sarei sceso da basso, non avrebbe neanche capito che ero in casa. Tutto invano; lei entrò direttamente dalla porta sul retro, senza bussare, e io sentii il suono familiare del bollitore riempito nel lavandino della cucina, il sordo rumore del gas che veniva acceso e lo strascichio delle gambe di una sedia. Mi accucciai di nuovo per terra, attento a non fare alcun rumore che rivelasse la mia presenza. Anche questo fu invano; dopo aver preso una tazza di tè, lei passò qualche minuto nel salotto e poi venne di sopra. Ero sulla mia soglia quando raggiunse il pianerottolo, e stringevo con forza la maniglia della porta. Lei era dall’altra parte e cercava di ruotarla, ed era troppo forte per me; la maniglia girò, la porta si aprì, lei guardò dentro verso di me. «Ciao, Dennis,» disse. «Cosa fai quassù?»

Volevo che uscisse dalla mia stanza! Borbottai qualcosa sui miei insetti; nella mia immaginazione la vidi sopra mio padre, che andava su e giù boccheggiando come un pesce. All’improvviso si strinse nelle spalle. «Quelle mosche!» disse. «Dobbiamo proprio tenerle in camera tua?»

Ero giù in cucina con lei quando mio padre tornò a casa dall’orto. Lo stress degli ultimi due giorni appariva molto evidente sui suoi lineamenti. Non aveva affatto lavorato nell’orto; l’unica volta che era uscito dal casotto e aveva sfidato le particolari energie presenti nell’atmosfera, si era trovato nell’impossibilità di toccare la terra. Era tornato dentro, a ciò che restava della bottiglia di porto. Nel tardo pomeriggio incominciò a scendere una pioggia fredda, che cadeva a scrosci e tambureggiava sul tetto sopra di lui. Si fece rapidamente buio, e il senso di orrore si rafforzò, raggiungendo il culmine che aveva avuto la prima volta che l’aveva provato, al mattino. Mentre lasciava il casotto, le foglie delle sue verdure annerirono di nuovo e ondeggiarono selvaggiamente, come alghe in preda a una corrente. Col bavero rialzato e il berretto in testa, tornò pedalando nella pioggia gelata fino a Kitchener Street.

Dev’essere stato uno shock per lui vedermi seduto a tavola con Hilda. «Piove, eh?» disse lei quando mio padre depose una borsa a rete piena di patate nel lavandino. «Mi sembrava di aver sentito che pioveva. Del resto è naturale, in questa stagione.» Mio padre non rispose; dopo essersi tolto la giacca e il berretto, incominciò a lavare le patate. Io colsi l’occasione per scivolare giù dalla mia sedia e lasciare la cucina. Mio padre mi sentì. «Dove vai, Dennis?» disse, voltandosi dal lavandino con un coltello in una mano e una patata mezzo sbucciata nell’altra. «Su, in camera mia,» dissi. Lui aggrottò la fronte come davanti a una tempesta nera, ma non disse niente; si limitò a tornare alle patate. La colpa era sua, non mia!

Oh, butto giù la penna. La psicologia dell’assassino — come faccio a saperne qualcosa? Come faccio a sapere qualcosa di tutto questo? Tutto imparato oltremare, durante i lunghi, noiosi anni che ho passato in Canada. Basta, è molto tardi, sono stanco; c’è un rumore di passi in solaio, e non posso andare avanti. Il dolore intestinale non è passato, anzi si è esteso ai reni e al fegato, e sospetto che qualcosa di molto brutto stia succedendo dentro di me, che ci sia in ballo non il cibo (per quanto schifoso), ma qualcosa di molto peggiore. Sospetto, in realtà, che i miei organi interni incomincino a raggrinzirsi, anche se non so bene perché ciò avvenga. Come farò a «funzionare» se i miei organi interni si raggrinzano? Io non possiedo una grande vitalità e non posso permettermi nessun raggrinzimento o accartocciamento interno. Forse è solo un fenomeno passeggero, come l’odore di gas, che per fortuna non è più tornato.

Avevo scritto sulla morte di mia madre. Ero rimasto seduto alla scrivania raccontando gli eventi di quella terribile notte e del giorno successivo, e nel processo i ricordi erano diventati in qualche modo più vividi della situazione immediata — si era verifìcato il ben noto parallelismo di passato e presente, e io devo essere entrato in una sorta di trance. Perché quando mi sono riavuto, mi trovavo nella camera della signora Wilkinson.

Non so come sia successo. Era molto tardi, la casa era buia e silenziosa, e lei dormiva pesantemente. Aveva addosso una specie di sciarpa annodata sotto il mento, e i capelli erano pieni di bigodini. Aveva della crema bianca sulla fronte e sulle guance e, alla luce della lampadina del corridoio, brillava di un pallore spettrale. Non so quanto rimasi lì, né quello che pensai; mi riebbi solo quando lei si svegliò di soprassalto e si rizzò a sedere, cercando con una mano la lampada sul tavolino. «Signor Cleg!» gridò. «Per l’amor di Dio, cosa diamine crede di fare? Torni in camera sua!» Incominciò a tirarsi fuori dal letto. Quando raggiunsi la porta mi voltai, con l’intenzione di spiegare in qualche modo quello che era allora — e resta tuttora — inspiegabile. Lei era seduta sul bordo del letto, una curiosa figura con la bizzarra camicia da notte, i bigodini e la crema sulla faccia, che mi fissava a bocca aperta e, per chissà quale ragione, era più vulnerabile di quanto non fosse mai stata prima; un’emozione si risvegliò in me, qualcosa di forte, anche se definirla con precisione è al di là delle mie possibilità. Mi fermai sulla soglia. Lei agitò una mano verso di me, e con l’altra coprì uno sbadiglio. «Fuori! Fuori!» gridò. «Parleremo di tutto questo domani mattina!»