Quando tornai in camera mia, trovai il diario dove l’avevo lasciato: aperto sulla scrivania, con la matita lungo il taglio. Lo rimisi immediatamente nel suo buco, la grata dietro al caminetto a gas fuori uso. Carponi vicino al caminetto, pensai che era ironico tenere un diario che avrebbe dovuto aiutarmi a chiarire la confusione fra ricordi e sensazioni, mentre il disordine stava in realtà aumentando. Dormii male; gli organi interni mi dolevano ancora, e c’era molta attività in solaio; più tardi, incominciarono a spostare dei bauli. Questa operazione fu seguita da un periodo di silenzio, e poi li sentii fuori dalla mia porta. Devo aver fatto in punta di piedi una mezza dozzina di passi per attraversare la stanza prima di spalancare l’uscio, ma le perfide creature, diavoletti o altro che fossero, erano sempre troppo veloci per me.
Il giorno dopo pioveva, e io pensai seriamente di tornare a Kitchener Street. Non so cosa sia stato a impedirmelo — certo non il bisogno di preservare nel ricordo una sorta di aura relativa a quel luogo, un alone di innocenza: Kitchener Street era profondamente contaminata ben prima che avvenissero questi fatti; ogni mattone della zona emanava tristezza e malvagità, e non solo la strada, ma tutta quella sovraffollata conigliera era cattiva, cattiva dal giorno in cui l’avevano costruita. Per cui, no, non era questo: forse era proprio il contrario, la prospettiva di vedere (come solo e soltanto io potevo vedere) quanto più scure erano le costruzioni in mattoni, quanto più umide, quanto più avevano assorbito lo squallore morale che una simile architettura invariabilmente provoca in chi la abita.
L’orto era un’altra storia. Quando la pioggia cessò, ancora una volta andai faticosamente fino a Omdurman Close, e quindi al ponte sulla ferrovia. Ero in precarie condizioni, ma riuscii ad attraversarlo senza incidenti. Pochi minuti dopo, mi trovavo all’ingresso dell’orto di mio padre. Uno spaventapasseri era collocato fra le patate (doveva essermi sfuggito in precedenza), alto un metro e mezzo, fatto di sacchi pieni di stoffa e legati ai polsi e alle caviglie con corde. Le braccia aperte, era attaccato a una rozza croce di un metro per due e chiaramente rendeva il suo servizio da parecchie stagioni: i vestiti erano ridotti a un color grigio-marrone uniforme e il cappello posato sulla testa molle e senza occhi, inchiodata alla croce, era scolorito per la pioggia e chiazzato di escrementi di uccello. Per qualche minuto ci fissammo reciprocamente, quella creatura e io, finché un soffio di vento tese i sacchi allentati e mi fece sussultare. Era difficile non notare che gli orli sbrindellati dei sacchi erano macchiati di un colore nerastro. Nel cielo spessi banchi di nuvole grigie si avvicinavano bassi dal fiume e il vento rinforzava; pensai che sarebbe potuto arrivare un temporale. Mi venne in mente anche di fare un gesto commemorativo, e così presi una piantina di tarassaco e qualche ciuffo di cardo, e — non c’era nessuno — aprii il cancello e scivolai sul sentiero e sparsi il mio semplice mazzolino sul campo delle patate. Quindi mi distesi sul terreno.
Dopo pochi istanti mi sentii più forte, per cui — invece di tornare da dove ero venuto — proseguii oltre gli orti, verso un sentiero ripido che dava su un reticolo di strade e vicoli che per qualche ragione era da sempre chiamato «le Tegole». Sdrucciolai lungo il sentiero, poi rimasi un momento immobile, in fondo, per riprendere fiato. Lontano, verso est, vedevo una lunga striscia di fabbriche con sottili ciminiere che emettevano fumo, mentre verso sud, a due o trecento metri, c’era una recinzione di lamiera ondulata. Ma dov’erano le Tegole? Tutt’intorno a me il terreno era disseminato di mattoni e pietre e pezzi di cemento da cui spuntavano aculei di ferro tranciato e contorto, e non molto lontano il suolo scendeva a formare una pozza in cui si era raccolta dell’acqua, con brutti ciuffi di erba intorno al bordo. Cartacce volteggiavano su questo deserto mentre io mi voltavo in tutte le direzioni a cercare le Tegole. Erano scomparse? Com’era possibile che fossero scomparse? O la mia memoria mi stava di nuovo ingannando? A fatica, risalii il sentiero fino agli orti, poi tornai al ponte sulla ferrovia. Avevo completamente sbagliato la collocazione delle Tegole nella mia memoria? E, se così fosse stato, anche il resto della mia «mappa» era ugualmente difettoso? Oh, questa sì che era una preoccupazione, questo sì che mi angosciava profondamente. Era stata una giornata lunga per il vecchio Spider, e stancamente egli tornò a casa, entrando molto silenziosamente per evitare la signora Wilkinson, che senza dubbio avrebbe voluto una spiegazione per la sua visita notturna.
Il giorno dopo, andai al fiume, a una spiaggetta sassosa dove da ragazzo guardavo le chiatte e le navi; a quei tempi, andavano a carbone e, nel cielo, spuntavano costantemente nuvole di fumo nero. Si raggiungeva la spiaggia con la bassa marea attraverso alcuni gradini di legno incatramato dietro a un vecchio pub di nome «Crispin». Scendevo per ficcare il naso fra le barche ormeggiate lì: vecchie barche da lavoro rovinate, con tele cerate puzzolenti a coprire il ponte, tutte piene di acqua piovana e verdi di muffa. Spesso saltavo sul ponte e mi infilavo sotto l’incerata, tra le catene di ferro e i legni bagnati, e mi sistemavo in uno spesso e unto rotolo di funi marce — adoravo stare solo in quell’oscurità umida con all’esterno le strida attutite dei gabbiani che volteggiavano e battevano le ali sull’acqua. Il Crispin c’era ancora, e così i gradini incatramati, anche se adesso apparivano insicuri, e io non scesi. Ma guardai oltre l’orlo: c’erano le barche sulla riva e, al di là dell’acqua, le gru puntavano verso il cielo come le avevo sempre ricordate. Questo era un conforto, comunque; la mia geografìa non era del tutto distorta.
Io cambiai dopo la morte di mia madre. Quando era viva, ero un bravo ragazzo: cioè, di quando in quando provocavo l’ira di mio padre e dovevo scendere in cantina, ma non c’è niente di anormale in questo, tutti i ragazzi commettono degli errori e vengono puniti. Prima che mia madre morisse, ero un ragazzo tranquillo, solitario e riflessivo, che leggeva parecchio; non avevo amici fra i giovani di Kitchener Street e tendevo a starmene per conto mio tutte le volte che potevo, giù al canale o al fiume, specialmente col tempo umido e nebbioso. Ero alto per la mia età, alto e magro, e intelligente e timido, e i ragazzi come me non sono mai popolari, soprattutto presso i loro padri, che cercano tratti duri e mascolini. Le madri sono diverse sotto questo aspetto, ho notato: mia madre certamente lo era. Proveniva da una famiglia migliore di quella di mio padre; aveva fatto un matrimonio al di sotto delle sue possibilità, capite, e apprezzava i libri e l’arte e la musica; mi esortava a leggere e, durante le lunghe serate che passavamo in cucina mentre mio padre era fuori a bere, mi aveva spinto ad aprirmi, incoraggiato a parlare, a condividere con lei le mie idee e fantasie; a volte, andavo a letto tranquillamente stupito per tutto quello che avevo detto, per il fatto che ci fossero tante cose nella mia testa; molto spesso sentivo — o, meglio, ero spinto a sentire — che nella mia testa non c’era un bel niente, che ero uno stupido allampanato e incapace di parlare, con le ginocchia grosse e le mani impedite, che non avrebbe fatto niente di buono per nessuno. Più tardi, compresi che mia madre mi capiva, perché anche lei era estranea all’ambiente in cui viveva — le donne di Kitchener Street non avevano tempo per il suo buon gusto, la sua raffinatezza, la sua cultura: erano donne come Hilda, «primitive» in confronto a lei. Perciò capiva quello che soffrivo, e soltanto lei mi permise di essere davvero me stesso nelle poche fuggevoli ore che passammo insieme prima che mio padre le sfondasse il cranio con la vanga. Dopo, vedete, ero molto, molto solo, e senza il suo amore, la sua influenza, senza — semplicemente — la sua presenza, andai rapidamente alla deriva. Per questo, cambiai da bravo a cattivo ragazzo.