Non che ciò sia avvenuto senza provocazioni. All’inizio, per Hilda, io fui una fonte di divertimento. In seguito, arrivò a temermi, ma in quelle prime settimane usò quel ragazzone che arrossiva, non più bambino e non ancora uomo, come vittima del suo volgare umorismo. Mi prendeva in giro, rideva di me, ostentava il suo corpo in mia presenza; e poiché stava molto spesso in cucina, anche quando mio padre era fuori di casa, potevo evitarla solo andando al canale (anche se questo, naturalmente, comportava passare dalla cucina per uscire), o nascondendomi nella carbonaia, o restando in camera mia — anche se neppure la mia stanza era più un santuario, perché lei non si faceva scrupolo di venire di sopra e ficcare dentro il naso per divertirsi. Ricevetti qualche aiuto da mio padre in tutto ciò? Era in qualche modo mio alleato? No. Al contrario, anzi: partecipava ai suoi scherzi; con quel suo modo astuto e tranquillo, con Hilda scambiava strizzatine d’occhi e cenni della testa e sorrisi compiici quando lei si preparava a «farmi fare qualche passo avanti». Si arrivò presto al punto che, quando ero in cucina con Horace e Hilda, notavo dei segnali che scorrevano avanti e indietro fra loro e suggerivano una sola cosa, la presa in giro (anche se quando dicevo qualcosa, negavano), e così arrivai a dubitare delle mie percezioni, ma questo è ciò che credo avvenisse. Perché lo facevano? Perché mi tormentavano in questo modo con tanta costanza? Fu solo anni dopo, in Canada, che capii che io funzionavo per Horace e Hilda come valvola di sfogo per il senso di colpa e per l’ansia che incombevano su di loro nelle settimane successive alla morte di mia madre, che incombevano su di loro non in forma terribile o acuta, ma piuttosto come una condizione dell’esistenza, un modo di essere, subito dopo il delitto. Per quanto Hilda tentasse di sbarazzarsene ridendo, di giocare alla bionda sicura di sé come in precedenza — e per quanto ampi fossero i poteri di repressione di mio padre —, a un qualche livello essi secernevano le tossine che l’omicidio sempre e inevitabilmente distilla nel cuore umano; e se non volevano rivolgere quelle tossine l’uno contro l’altra, doveva esserci una valvola di sfogo, un condotto d’uscita. Ero io quel condotto: io dovevo incanalare e assorbire il veleno, e così feci; nel procedimento rimasi contaminato, avvizzii, qualcosa morì dentro di me; divenni un fantasma, una cosa morta — in breve, divenni cattivo.
Forse l’aspetto più crudele della mia situazione era che il mio dolore non poteva essere condiviso con nessuno. All’inizio, non era dolore: era disperazione. Dov’era finita? Dov’era mia madre? Non ottenevo risposta, e se affrontavo l’argomento con mio padre, diventava immediatamente teso e furente, e mi rammentava la conversazione che avevamo avuto.
Il sabato mattina quando avevo visto Hilda nel letto con lui. Tuttavia io mi dimenticavo sempre quella conversazione, perché il senso di perdita che provavo e il panico di non sapere vincevano qualsiasi fragile inibizione egli aveva instillato in me, e venivano fuori, sgorgavano; e di nuovo montava quella terribile rabbia quieta, e l’unica cosa che ottenevo era che non dovevo ancora saperlo. Col tempo i miei sentimenti cambiarono, la disperazione e l’urgenza furono sostituite da un dolore cronico e da un lancinante senso di assenza, di vuoto, che mi lasciarono curiosamente vulnerabile di fronte al disprezzo sostenuto che Horace e Hilda rivolgevano verso di me. Ma non era soltanto la solitudine, perché se vi accennavo davanti a Hilda — e in due occasioni, spinto al limite della sopportazione dai suoi scherzi e dalle sue prese in giro, lo feci, gridai piangendo: «Tu non sei mia madre!» —, allora lei fingeva di essere molto sorpresa: si rivolgeva a mio padre, che le indirizzava uno sguardo impenetrabile e un sorriso quasi impercettibile agli angoli della bocca, e diceva: «Non sono tua madre?» «No,» gridavo io, «mia madre è morta!» Nuove silenziose prese in giro, un’altra occhiata complice. «Morta?…» E si andava avanti così finché fuggivo dalla cucina, incapace di trattenere oltre le lacrime e aggrappandomi con forza a un insieme di ricordi — e di emozioni a essi associate — che nessuno avrebbe confermato. Così lei viveva solo in me, adesso: arrivai a comprendere questo, e la consapevolezza mi rese molto più tenace perché intuitivamente capivo che se fosse morta in me sarebbe morta per sempre. Vedete, avevo sentito mio padre dire all’uomo della porta accanto che era andata a vivere con sua sorella in Canada.
Col tempo, sviluppai il mio sistema a due teste. Il davanti della mia testa lo usavo con le altre persone in casa, il dietro lo utilizzavo quando mi trovavo da solo. Mia madre viveva nel dietro della mia testa, ma non nel davanti; divenni esperto nel muovermi avanti e indietro e viceversa, la qual cosa sembrò facilitarmi la vita. Il dietro era la parte reale della mia vita, ma per tenere fresco e sano quanto vi albergava dovevo avere un davanti che lo proteggesse, come i pomodori in una serra. Così, quando ero da basso, parlavo e mangiavo e mi muovevo, e ai loro occhi ero io, ma solo io sapevo che «io» non ero lì: quello che loro vedevano era solo la serra; io ero dietro, dove viveva Spider, davanti c’era Dennis.
Per me, allora la vita diventò più facile. Non mi dispiaceva essere un ragazzo cattivo, perché naturalmente sapevo che era Dennis il cattivo; e quando mio padre mi portava giù nella carbonaia era Dennis che andava con lui e appoggiava la testa al pilastro e metteva le dita sul chiodo arrugginito — mentre Spider se ne stava in camera sua!
Di conseguenza, se mia madre viveva solo nella parte di dietro della mia testa, lì era conservato anche il suo omicidio. Perché se da basso non potevo quasi riferirmi a lei per nome, mi risultava davvero impossibile anche solo alludere alla sua morte e al modo in cui era stata buttata sotto terra come un sacco di spazzatura. Durante quelle prime settimane non capii cosa le era successo e mi persuasi che effettivamente era andata in Canada, come avevo sentito dire più volte da mio padre ai nostri vicini. Ma lei non aveva una sorella in Canada! Non me ne avrebbe parlato quando sedevamo vicino alla stufa in cucina, in quelle lunghe sere invernali, con la pioggia che batteva sulle finestre e il tintinnio degli stivali chiodati sul selciato, quando gli uomini percorrevano il vicolo dietro il cortile? Avrebbe parlato di sua sorella, avrebbe ricevuto delle lettere col timbro «Winnipeg» o «Vancouver», con francobolli con la testa del re, e me le avrebbe mostrate, me le avrebbe lette, e insieme avremmo immaginato l’inverno in Canada, il Natale in Canada — la famiglia di sua sorella riunita intorno a un abete («Tutti i tuoi cuginetti, Spider»), il profumo di una grassa anitra che arrostiva nella cucina di una casetta di tronchi con il tetto ombreggiato dai cedri e un grosso camino di mattoni che sputava fumo nell’umido cielo canadese. Insieme avremmo immaginato queste scene nella luce giallastra del numero 27 e, per un’ora o due, saremmo stati lontani da quell’orribile tugurio, anche noi avremmo fatto parte della famiglia riunita davanti al caminetto, coi ceppi di pino scoppiettanti e i bambini — i miei cuginetti — che aprivano i regali con gridolini di gioia. Perché era andata da sua sorella e mi aveva lasciato lì? Su, in camera mia, coi gomiti sul davanzale, questo mi preoccupò, provocò in me un’acuta, stupita sofferenza, finché non mi ricordai che non esisteva nessuna sorella, nessuna casa di tronchi, nessun cuginetto; c’era soltanto l’assenza di mia madre, solo — ormai — il suo ricordo, e di sotto c’erano una donna grassa e indifferente verso di me (quando non ero vittima del suo umorismo) e un padre freddo e distratto. Questo, come ho detto, continuò per parecchie settimane, e fu solo quando ci avvicinammo al Natale che incominciarono ad accorgersi davvero di me, perché allora, cattivo com’ero (la parte Dennis, voglio dire), io capii che non dovevo più ubbidire all’ordine di mio padre di non parlare di lei. E quando compresi ciò, e loro si accorsero che avevo capito, non poterono più ignorarmi.