A quel tempo, mio padre lavorava ancora, per cui in casa entravano dei soldi. Questo significava serate al Rochester e tizi che venivano a Kitchener Street dopo. Li vedevo entrare in cortile dal vicolo, portando delle bottiglie, il respiro che formava una grande nuvola di nebbia e li faceva sembrare un unico animale, un mostruoso cavallo dalle innumerevoli zampe che camminava nel cortile. Sbuffavano vapore, ruggivano con molte voci nello stesso tempo, e io non riuscivo mai a dormire quando c’era questa situazione in casa: c’era tanto rumore da basso, voci forti e canti di ubriachi, tintinnio di bottiglie e trapestio di stivali sul pavimento. Spesso in casa c’erano persone che non avevo mai visto prima, le guardavo dalla finestra della mia camera mentre sfilavano verso il gabinetto in cortile, o le vedevo baciarsi e toccarsi nel corridoio sottostante dal mio osservatorio nel buio in cima alle scale.
Non c’era nessun albero di Natale al numero 27, niente decorazioni, niente doni: solo un ciuffo di vischio legato con lo spago alla lampadina che pendeva dal soffitto della cucina, e questo permetteva loro di trattarsi più licenziosamente del solito. Poi venivano aperte alcune bottiglie, e Horace si metteva carponi per elemosinare un po’ di calore dalla stufa. Hilda gli aveva fatto portare in cucina le poltrone del salotto, e in una di esse sedeva lei, con un grande bicchiere di porto rosso, mentre i canti e le risa incominciavano. Malgrado il sottofondo, la sua risata era sempre riconoscibile da sopra, anche con la porta della cucina chiusa. Una volta, ricordo, sentii l’uscio della cucina che si apriva — il rumore parve gonfiarsi per un momento —, e poi udii un furtivo sussurrare nel corridoio. Io ero in pigiama in cima alle scale. Mi ritirai nella mia camera e sentii delle persone percorrere il corridoio. Attraverso la fessura della mia porta, vidi un uomo e una donna che salivano le scale: lui era grasso e aveva un vestito scuro; lei, con le scarpe in mano, era una tizia che avevo già visto in casa, un’amica di Hilda, bella a suo modo, anche se a ripensarci adesso mi ricordo che la vita e l’alcol avevano annientato il colore della sua pelle e la luce dei suoi occhi: era una donna grigia e triste e, benché ridesse in continuazione, il suo sguardo era spento, i suoi denti erano marci, e il suo alito aveva un odore terribile. I capelli erano tinti di nero; si chiamava «Gladys». Passarono in punta di piedi sul pianerottolo e si infilarono nella camera dei miei genitori, tirandosi la porta alle spalle, anche se naturalmente non si chiudeva bene: era difettosa. Non molto tempo dopo, sentii il letto che cigolava e Gladys che gemeva sommessamente; poi ci fu silenzio. Andai sul pianerottolo e, mettendomi carponi come il primo giorno che Hilda era venuta in casa, li guardai. Gladys era distesa sul letto e fumava una sigaretta. Non avevano acceso la luce, per cui c’era solo la fioca luminosità che arrivava dal lampione della strada. L’uomo grasso era dall’altra parte del letto e si infilava a fatica i pantaloni, contando nello stesso tempo delle sterline. Rientrai in camera mia e, cinque minuti dopo, sentii i due che tornavano giù.
Rimasi nella mia stanza, seduto vicino alla finestra, e aspettai che se ne andassero tutti. Era passata la mezzanotte quando attraversarono incespicando il cortile a gruppi di due o tre — non più il cavallo-mostro di prima, troppo ubriachi ormai per questo —; poi sentii Horace e Hilda che salivano. Aspettai un’altra mezz’ora prima di scendere con una candela. La cucina era disgustosa: bicchieri sporchi, bottiglie vuote, portacenere stracolmi, le scarpe nere di Hilda sul tavolo, una reclinata (perché erano sul tavolo?), e un terribile odore di fumo di sigaretta e di alcol. Gladys era stravaccata a dormire su una delle poltrone, col cappotto addosso; sul bracciolo, vicino al punto in cui la sua testa ciondolava e russava appoggiata alla spalla dalla quale pendeva un braccio, c’era un bicchiere mezzo pieno di birra scura (nera alla luce della candela) con un mozzicone di sigaretta che galleggiava decomponendosi e fili sparsi di tabacco. Spostai il bicchiere sul tavolo della cucina, presi le scarpe di Hilda e le misi per terra. Poi restai a fissare Gladys per qualche minuto, tenendo la candela alta vicino al mento, tanto che sentivo il calore della fiamma; nella stufa, il fuoco stava morendo, e il freddo della notte si intrufolava in cucina. Mentre fissavo la donna stravaccata nell’ombra, pensavo ai rumori che aveva fatto di sopra e alla vista delle sue gambe con le giarrettiere sul letto e il vestito arrotolato in vita. Qualcun altro dormiva sull’altra poltrona, ma non era l’uomo grasso: era Harold Smith. Poi uscii dalla porta sul retro, nel freddo, e mi feci una sega nel gabinetto; quando tirai la catena l’acqua arrivò proprio fino all’orlo, prima di ritirarsi molto lentamente: non l’aveva ancora sistemato. Rientrando, trovai del vecchio cheddar nella dispensa e una crosta di pane nel portapane; sedetti a tavola e, sempre alla luce della candela, fra il russare degli ubriachi, consumai la mia cena, accompagnandola con un bicchiere di birra scura presa da una bottiglia non finita vicino al lavandino.
Il giorno dopo era la vigilia di Natale e non dovevo andare a scuola. Non ci sarei andato comunque; da quando ero diventato un ragazzo cattivo, avevo perso molti giorni di scuola, perché di notte non dormivo più. Scesi da basso alle dodici. La cucina era stata ripulita, e Hilda stava preparando delle polpette. Mi sorrise, e io mi misi subito in guardia. Il calore di Hilda era una trappola, perché appena ci si rilassava lei tirava una freccia avvelenata. Sedetti a tavola senza dire una parola. Lei stendeva una palla di pasta con il matterello; aveva le mani e le braccia sporche di farina, ma c’era del sudiciume sotto le sue unghie e puzzava di anguille in gelatina. Indossava il grembiule di mia madre — le era stretto, com’è ovvio, soprattutto sulla pancia. «Perché mi guardi in quel modo?» mormorò, con le grosse braccia bianche che spingevano sul matterello. «Ecco il tuo toast!» E prese dalla stufa un piatto con un paio di fette di pane dure e rinsecchite. «C’è del sugo, se vuoi,» disse, «e il bollitore è pronto. Tuo padre dovrebbe tornare presto, oggi.»
Qual era il suo gioco? Esaminai attentamente il toast e decisi di non correre il rischio. Bevvi il tè, però, e non ci trovai niente di strano. «Nora è giù dal macellaio,» disse Hilda. «Sarà un miracolo se riusciamo a fare tutto; mi chiedo se ne valga la pena.» Guardò fuori dalla finestra sopra il lavandino. «Vorrei che si sbrigasse,» disse, e io sentii che mi irrigidivo e slittavo verso il dietro della mia testa, dove viveva Spider. Appena fui lì, pensai che avevano elaborato una nuova strategia — «conquistandomi», speravano di assicurarsi il mio silenzio e la mia complicità. Era una trappola, capite, era come se Hilda mi stesse dicendo: «Sì, è vero, abbiamo assassinato tua madre, ma cerca di pensare a me come tua madre, adesso.» Per questo, stava preparando le polpette e parlava del macellaio, si comportava come se fosse mia madre. Non le veniva naturale, questo era chiaro dal modo in cui maneggiava il matterello. Mia madre era molto più abile con la pasta, di gran lunga più esperta di questa prostituta con le zampe a prosciutto che recitava in una cucina non sua; e poi mia madre non maneggiava mai il cibo senza prima essersi pulita perfettamente le mani. E questo: «Nora è giù dal macellaio…» — chi era Nora per me? Pensava davvero che avrei mangiato della carne che era stata toccata da Nora? Era un bel pezzo di teatro, ma io ero troppo furbo per lei. «Cos’hai da sorridere?» disse, smettendo di lavorare con tanta lena e scostandosi una ciocca di capelli dalla fronte bagnata. «Sei diventato davvero un ragazzo strano, ultimamente; non mi stupisce che tuo padre sia preoccupato per te.» Oh, era brava, nella mia testa la stavo applaudendo: era proprio come una madre.