Continuò finché Nora tornò dal macellaio con il pollo che dovevamo mangiare per la cena di Natale. «Diamogli un’occhiata, allora,» disse Hilda, asciugandosi ancora una volta le mani nel grembiule. Con le forbici nere della cucina tagliò lo spago legato intorno al giornale in cui era avvolto il pollo. «Molto bene, Nora,» disse quando esso giacque sul tavolo, la pelle grassa e rosea segnata dai puntini dove erano state strappate le penne. Io, per me, non provavo interesse per quella carcassa, finché Hilda gli infilò una mano nel sedere e gridò: «Dove sono i fegatini?»
«Non ci sono?» chiese Nora.
«Controlla anche tu!» E facendosi da parte, Hilda lasciò che Nora infilasse la mano nel pollo. «Li lascia sempre dentro,» disse Nora, «non ho pensato di controllare.»
«Torna indietro e prendi i nostri fegatini, Nora. E le zampe, e la testa. Cosa crede, di poterci portar via metà del pollo? E digli, Nora…» — Nora è mezzo fuori dalla porta, ormai — «… che se ci fa un altro scherzo del genere se la deve vedere con me.»
Scuotendo la testa, Hilda aprì il rubinetto e mise le mani sotto l’acqua fredda, poi tornò alle sue polpette. Non riuscii a trattenermi; dovevo guardare dentro il pollo; tutto ciò che vidi fu una cavità, niente organi, e ciò mi diede una strana sensazione. Lasciai la cucina poco dopo e scesi in cantina.
Ero in camera mia quando mio padre tornò dal lavoro; naturalmente la prima cosa che Hilda gli disse fu che il pollo era arrivato dal macellaio senza fegatini e che Nora era dovuta tornare indietro a prenderli. «Cosa, niente fegatini?» disse mio padre — io ero seduto in cima alle scale e ascoltavo, quasi incapace di trattenere le risa. Poi anche lui ficcò il naso dentro il pollo, come avevo previsto. «Cos’è questo, allora?» lo sentii dire, e sapevo esattamente quello che stava accadendo: estrasse dalla cavità un pacchetto di foglie legato con lo spago, e quando lo aprì caddero fuori dei piccoli frammenti di carbone, poche piume di uccello, delle pagliuzze rotte e, proprio al centro, un topo morto!
Passai quella notte, la vigilia di Natale, nel capanno dell’orto. Mio padre aveva immediatamente indovinato chi era il responsabile. «Dov’è?» lo sentii dire, e un momento dopo saliva velocemente le scale. Poi fu sulla soglia della mia camera, tremante di rabbia, gli occhi in fiamme e la mandibola sporgente. «In cantina,» disse, «subito!»
«Assassino,» dissi io. Ero in ginocchio sul pavimento con i miei insetti.
«Subito!» E con questo attraversò la stanza con un solo slancio e, afferrandomi per il colletto, mi trascinò sul pavimento. Andammo giù per le scale: io davanti, tossendo; lui, furibondo, dietro. Quando raggiungemmo la porta della cantina mi lasciò per un attimo il colletto, e ciò fu sufficiente. Mi precipitai fuori, attraversando la cucina con le stupefatte Hilda e Nora, e il cortile, sempre inseguito da lui. «Torna qui!» gridava. Il cancello del cortile era rimasto aperto, e io lo oltrepassai in un lampo e corsi nel vicolo. Stava diventando buio; lui mi raggiunse quasi all’estremità del vicolo e mi spinse contro il muro e mi tenne lì, inchiodato ai mattoni, mentre cercava di riprendere fiato. Io mi abbandonai completamente; lui mi fissava furibondo. «Assassino,» sussurrai, «assassino, assassino.» La fronte gli si scurì, i lineamenti gli si contorsero per la perplessità — cosa doveva fare di me, di quello che sapevo? Il suo respiro si fece più regolare, e io rimasi inerte; la sua presa si allentò leggermente; scivolai via dalle sue mani, e di nuovo mi misi a correre. Lui mi inseguì fino alla fine del vicolo, ma le energie l’avevano abbandonato e, mentre io sfrecciavo nel crepuscolo, un ragazzo in fuga, senza cappotto, con le gambe lunghe, lui si voltò indietro, sempre in maniche di camicia, e sfogò la sua rabbia contro un bidone della spazzatura vicino al muro. Un gatto nero strisciò fuori da sotto il coperchio con una testa di pesce in bocca e scappò nel buio. Col piede dolorante, mio padre tornò saltellando in cucina, dove senza dubbio parlarono di me per il resto della sera. Credo, però, che prima si sia tolto gli stivali e le calze e abbia trovato del sangue sotto l’unghia dell’alluce, che si stava facendo viola e nero.
Se mai avete tenuto un diario, saprete che certe sere è quasi impossibile buttare giù anche una sola frase, mentre altre volte le parole fluiscono sulla carta ora dopo ora finché non si è svuotati, e allora si ha l’impressione non di aver scritto, ma di essere stati scritti. Non dimenticherò mai la notte che trascorsi nel casotto di mio padre. Avevo scoperto da molto tempo come entrare di nascosto: si forzava per una spanna l’asse alla quale era avvitato l’anello di metallo in cui si inseriva la punta del chiavistello, poi ci si infilava dentro la fessura e ci si tirava dietro la porta con forza, in maniera che l’asse tornasse al suo posto. Ma prima di andare nel casotto, passai alcuni minuti in ginocchio nel campo delle patate. Non c’era che terra nera in quella stagione così tarda, ma non erano le patate che cercavo. Lei avvertiva la mia presenza, lo sapevo, tentava di raggiungermi, era molto chiaro, come prevedevo, tanto eravamo legati: questa era una cosa che mio padre non poteva distruggere con le sue sgualdrine o la sua violenza — un legame indissolubile. Appena la sentii, mi buttai disteso sul terreno e le parlai sussurrando, e non scriverò quello che le dissi. Il buio era calato e stava rapidamente facendosi più freddo; quella notte avrebbe gelato, e si era parlato anche di neve. Ma nessun freddo poteva toccarmi in quel momento, continuai a sussurrare finché non le ebbi detto tutto quello che dovevo, poi mi infilai nel casotto.
Sapevo dove trovare i fiammiferi e le candele, e le accesi tutte e le appoggiai sugli scaffali e sul pavimento, finché quel luogo brillò come una chiesa. Poi mi rannicchiai nella poltrona come meglio potevo, avvolto nei sacchi per difendermi dal freddo, e guardai la luce delle fìammelle tremolare fra le ragnatele, su nell’oscurità sotto il tetto. Dopo pochi minuti, dovetti uscire dai sacchi e coprire la teca con il furetto: il modo in cui la luce si rifletteva sul suo occhio di vetro mi metteva a disagio. Rimasi raggomitolato nella poltrona di crine, guardando le ragnatele, ed è insolito ricordarlo adesso, perché pensereste che abbia pianto fino ad addormentarmi. Invece no, restai sveglio e con gli occhi aperti, e abbastanza stranamente era l’idea che i ragni del tetto montassero la guardia a darmi sicurezza.
Mi addormentai. Quando mi risvegliai, alcune ore più tardi, alcune candele bruciavano ancora, e io ebbi un attimo di confusione e di smarrimento; poi, dapprima debole, ma più forte di momento in momento, fui pervaso da un senso di pace e di gioia, perché mia madre era con me.
Mia madre era con me, fioca e scura all’inizio, ma sempre più chiara a ogni istante. Era in piedi davanti a me nel casotto illuminato dalle candele, fra gli attrezzi e i vasi e i pacchetti di semi. I suoi vestiti erano sporchi e umidi per la terra del giardino, e sulla testa aveva una sciarpa scura, ma com’era bianca la sua faccia! Perfettamente bianca, sana, intera, radiosa e luminosa! Quei momenti sono profondamente intessuti nella trama della mia memoria — la luce delle candele, le ragnatele brillanti sul tetto nel gelo, anche se io non avevo freddo: come potevo averlo, avvolto com’ero nel calore e nella pace della sua presenza e nel flebile, dolce mormorio della sua voce, e soprattutto nel senso di pienezza che allora conobbi, una pienezza che ho cercato da quel momento senza mai più trovarla, né qui, nelle strade vuote dell’East End londinese, né nelle pianure e nelle montagne e nelle città del Canada, dove vagai solo e disperato per vent’anni?