La cosa che mi disturbava di più, credo, dopo che Hilda si trasferì al numero 27, era vedere i vestiti di mia madre indossati da una prostituta. Non bastava il pensiero dell’invasione e della violazione, c’era anche lo spettacolo quotidiano di ciò che avveniva agli abiti quando Hilda se li metteva. Mia madre era una donna magra, aveva una figurina delicata, quasi da ragazzo, mentre Hilda era tutta curve, carnosa. Perciò i vestiti di mia madre le andavano stretti e risultavano provocanti; quello che era stato elegante su mia madre appariva volgare su Hilda, ma in fondo era quella la natura della donna: tutto quanto toccava diventava in qualche modo volgare.
Ricordo che incominciai a spiarla, perché provocava in me una sorta di fascinazione atterrita. È difficile parlare di questa cosa, ma vedere i vestiti, i grembiuli, i maglioni che, per me, conservavano ancora l’aura di mia madre, vederli trasfigurati, caricati dell’invitante sensualità che impregnava i gesti di Hilda — le sue parole, il suo modo di camminare e di dimenare il sedere —, mi infastidiva moltissimo. Spesso la seguivo mentre andava a fare la spesa, oppure di sera quando si infilava la logora pelliccia e percorreva il vicolo sui tacchi, con il rossetto di mia madre sulle labbra, la biancheria intima di mia madre sulla pelle, il marito di mia madre al braccio — io scivolavo nel vicolo dietro di loro, mi muovevo (come un ragazzo africano) da un’ombra all’altra, silenzioso, invisibile, un fantasma, uno spettro. Quando andavano all’Earl of Rochester li guardavo attraverso le finestre; ero fuori al freddo e al buio, e fi spiavo mentre si crogiolavano e bevevano nel luminoso, accogliente calduccio del bar. Trovai il modo di penetrare nel cortile dietro il pub, e ciò mi consentì l’accesso alle finestre dei bagni; in piedi su una botte, guardavo Hilda dall’alto quando usciva per andare al gabinetto; la vedevo con le mutande alle caviglie e il vestito tirato su, il sedere che non toccava il sedile del water; poi, dopo essersi asciugata, estraeva la bustina del trucco e si dava una sistemata con la cipria e il rossetto di mia madre. Non mi vide mai, ma una volta, ricordo, mentre mi sollevavo sulle punte dei piedi per vedere cosa stava facendo, la botte oscillò sotto di me e lei alzò gli occhi — ma non prima che io avessi abbassato la testa e recuperato l’equilibrio. Come ho detto, provavo una sorta di atterrita fascinazione per l’assoluta rozzezza di quella creatura; la contemplavo come una specie di animale selvatico, con un misto di interesse e paura, e un senso di meraviglia per il fatto che potesse esistere una simile forma di vita. Era una forza della natura, così la consideravo allora.
Per quanto riguarda mio padre, il mio disprezzo per lui non aveva limiti. Lui non era pittoresco, non era una forza della natura; in preda a una rabbia selvaggia e codarda, aveva assassinato mia madre, e adesso si godeva il frutto maledetto di quell’azione. Sedeva al Rochester allegro e sorridente, a sorseggiare la sua mild, un uomo furtivo e sogghignante, una donnola con le agili zampe macchiate di sangue — misterioso, abile, lascivo, crudele e maligno. Avevo ragione di odiarlo, no? Aveva ammazzato mia madre e mi aveva fatto diventare cattivo; mi aveva infettato con la sua sporcizia, e l’odio che gli rivolgevo era davvero intenso.
Per qualche tempo, feci fìnta di andare a scuola al mattino, anche se dopo una settimana o due non mi preoccupai più neanche di questo. Di notte non dormivo più, ed era uno sforzo troppo grande uscire di casa alle otto e mezzo e poi girovagare vicino al canale per tutto il giorno, o andare giù al fiume e oziare fra le barche. No, me ne restavo in camera e trafficavo con la mia collezione di insetti, tenendo d’occhio il cortile sul retro e guardando chi andava e veniva.
Hilda spesso invitava le sue amicizie durante il giorno — perlopiù sgualdrine. Harold Smith e Gladys erano i visitatori più assidui. Io scendevo in cucina e mi sedevo su una sedia con le ginocchia rannicchiate sotto il mento e le braccia intorno agli stinchi, e non dicevo nulla, ascoltavo e basta; a loro sembrava che non importasse: continuavano a chiacchierare, spettegolavano sui vari piccoli drammi che davano sapore e colore alle loro tristi vite. Hilda non ci metteva mai molto a tirare fuori il porto dolce. «Non una parola con tuo padre,» mi diceva, versando a tutti una dose in una tazza da tè (anch’io avevo imparato ad apprezzare il porto, da quando era arrivata Hilda). Gladys sembrava sempre che avesse un problema. «Se non è una cosa, è un’altra, eh, Glad?» mormorava Hilda, mentre sfregava la cucina economica o pelava le patate e Glad sedeva al tavolo, fumando Woodbines e toccandosi i capelli tinti di nero con atteggiamento preoccupato e descrivendo qualche nuova calamità riguardante il suo padrone di casa o il suo «amico» del momento, mentre Harold Smith sorrideva col suo spento sorriso da cinico e si nettava le unghie e non diceva niente. Ma, in realtà, era Hilda quella che io osservavo e, mentre continuava a pulire o a pelare, notavo con segreta fascinazione come le sue braccia e le sue cosce e i suoi seni si gonfiassero e oscillassero sotto le gonne e il grembiule che un tempo ingentilivano la magra figura di mia madre.
Un incidente si staglia vivido in quest’epoca. In gennaio diventava buio verso le cinque del pomeriggio, per cui quando mio padre arrivava a casa i lampioni erano già accesi. Lo vedevo dalla finestra della mia camera mentre portava dentro la bicicletta dal vicolo e l’appoggiava al muro del gabinetto. Aveva la borsa degli attrezzi su una spalla e una sciarpa nera intorno al collo. Si inginocchiava per sciogliere i legacci che si era messo alle caviglie e li infilava nella tasca dei pantaloni. Poi, fregandosi vigorosamente le mani, percorreva il cortile ed entrava dalla porta sul retro. Hilda stava preparando la cena; sentivo il rumore delle pentole e il rombo proveniente dai rubinetti quando l’acqua scendeva nel lavandino. Un mormorio di voci, il raschio delle gambe di una sedia — aveva appeso la giacca e la sciarpa al gancio sulla porta della cucina ed era seduto a tavola. Hilda gli metteva davanti una bottiglia di birra, poi lui tirava fuori le cartine e la scatola del tabacco mentre lei imbandiva la tavola. Notate con quanta facilità Hilda aveva assunto il ruolo di mia madre nella routine domestica quotidiana e recitava alla perfezione la parte della donna di casa: ma vi prego di notare anche con quanta spregevole compiacenza mio padre accettava questo fatto!
Seppi che c’era in ballo qualcosa di strano appena entrai in cucina. Hilda e mio padre (me n’ero già accorto) avevano un modo particolare di guardarmi con la coda dell’occhio, e sentivo che quella sera lo stavano facendo. Ciò che di solito mi faceva impazzire era il fatto che appena me ne accorgevo, loro guardavano da un’altra parte e si comportavano in maniera del tutto normale — troppo normale. Quella sera, c’era una strana artificiosità in ogni cosa che facevano. C’era anche un odore insolito nella stanza, ma non riuscii a identificare cosa fosse. Non il cibo, di sicuro, perché c’erano aringhe affumicate, e conosco perfettamente il loro odore. Senza una parola, presi posto a tavola; senza una parola, incominciai a mangiare la mia aringa. Avvertivo che mi stavano guardando, e poi si scambiavano occhiate, anche se non riuscii mai a vederli davvero mentre lo facevano. Quando tagliai la mia patata, notai che proprio al centro c’era una macchia scura.
La fissai con un certo disagio. Poi un liquido sciropposo incominciò a fluire dalla patata: il denso, lento colare di quello che, dopo un istante o due, riconobbi come sangue. Alzai gli occhi, sussultando per guardare mio padre e Hilda, i loro coltelli e le loro forchette posati di traverso sul piatto; mi sorridevano apertamente. All’improvviso, la lampadina crepitò sopra la mia testa, e per un momento pensai che fosse una risata. Di nuovo lo sguardo mi scivolò sulla patata colante: adesso il sangue appariva coagulato in una pozza vischiosa sotto la mia aringa.