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Cosa si aspettavano che facessi? Stava succedendo qualcosa di strano alla luce della stanza; c’era solo quell’unica lampadina, senza lampadario, che pendeva da un filo marrone, e la sua luce era aspra e giallastra. Sembrò fluttuare — per qualche momento divenne sempre più fioca, finché fummo immersi nell’ombra; l’unica cosa che vedevo di Hilda e di mio padre era il bianco dei denti e degli occhi, lo scintillio degli occhi —, e poi lentamente tornò il chiaro, e loro sembravano comportarsi in maniera perfettamente normale.

Poi, con terribile inesorabilità, la luce tornò a ispessirsi, e questa volta il crepitio della lampadina diventò improvvisamente molto forte, salì fin quasi a un urlo e, mentre io restavo seduto senza quasi osar respirare, era impossibile non sentire in quel rumore delle voci di derisione e di scherno, e quando guardai nel mio piatto — non riuscivo più a guardare Hilda o mio padre, perché adesso mi terrorizzavano: erano trasformati, erano delle specie di animali, non c’era niente nei loro volti che potessi leggere come umano, e questo mi faceva rizzare i capelli sulla nuca —, quando guardai di nuovo nel mio piatto il sangue stava lentamente svanendo con una leggera incandescenza; adesso lo fissavo in uno stato di rigidità scioccata, mentre la luce a poco a poco ritornava a crescere e riportava la cucina a quello stato stranamente instabile di falsa normalità in cui coltelli e forchette tintinnavano sui piatti, e Horace e Hilda masticavano vigorosamente il cibo e bevevano il tè, e il crepitio della lampadina era di nuovo sommesso e intermittente, e il rubinetto sgocciolava ritmicamente nel lavandino. Sul mio piatto, la patata tagliata giaceva in una pozza di sugo rappreso di color marrone a causa dell’aringa.

Non mi alzai da tavola, non gli diedi la soddisfazione. «Credevo che ti piacessero le aringhe affumicate,» mormorò Hilda, guardandomi mentre si portava la forchetta piena alla bocca, e io vidi come gli occhi di mio padre scivolassero verso di lei a queste parole e come le sue labbra producessero quel rapido movimento laterale di allegro disprezzo che scompariva appena notato. Non gli diedi la soddisfazione; senza parlare, tagliai ancora la mia aringa e incominciai a masticare rumorosamente, con gli occhi fìssi sul volto di Hilda. «Cosa stai facendo?» disse lei, prendendo la sua tazza. «Attento, hai inghiottito una lisca!» Incominciai a tossire, perché le aringhe hanno delle lische grosse, e non vi avevo prestato attenzione. Sputai nel piatto un mucchietto di pesce semimasticato con molti minuscoli ossicini all’interno, che sporgevano; mio padre disse: «Oh, santo Dio, Dennis.»

«Oh, santo Dio, Dennis»: riuscite a immaginare la rabbia che suscitò in me? Non era un trattamento esecrabile, una vile provocazione? Ma non gli diedi la soddisfazione e mi tenni dentro ciò che provavo, soffocai la rabbia e l’odio, perché il mio momento sarebbe venuto, lo sapevo fin da Natale: sarebbe arrivato il mio momento, e loro si sarebbero pentiti.

Più tardi, uscirono per andare al pub, e io tornai ai miei insetti. Quando li sentii ripercorrere il vicolo, spensi la luce e li osservai dalla finestra mentre entravano dal cancello in cortile. Mio padre appariva malfermo, e Hilda era arrabbiata con lui, lo si capiva chiaramente dalla sua espressione seria e dal modo in cui si affrettava nel cortile e oltre la porta, mentre lui chiudeva goffamente il cancello e poi faceva una sosta al gabinetto. Passi sulle scale — Hilda che andava a letto. Ma quando, pochi istanti più tardi, mio padre entrò in casa, non lo sentii salire dietro di lei e, man mano che i minuti passavano, capii che si era sistemato in cucina, anche se la luce non era stata accesa. Dopo un po’, andai in punta di piedi sul pianerottolo e guardai Hilda che dormiva; i suoi vestiti e la sua biancheria erano stati gettati su una sedia, e una calza era scivolata per terra. Quindi scesi velocemente da basso; come sospettavo, mio padre era rimasto nella cucina buia a bere dell’altra birra e poi era crollato. In silenzio, mi avvicinai a lui. Con la testa arrovesciata e la bocca aperta, e con ancora addosso il berretto e la sciarpa, russava piano sulla sedia accanto alla stufa, una bottiglia di birra e un bicchiere mezzo vuoto sul pavimento, vicino. Alla pallida luce della luna che filtrava dalla finestra sopra il lavandino, lo osservai attentamente. Avevo ancora tutta la rabbia che mi ero tenuto dentro e capii che potevo fargli ciò che volevo; a questo pensiero, avvertii una vivida e dolcissima sensazione di potere, di dominio.

Aprii il contenitore del pane e tirai fuori il coltello. Feci qualche finta e tirai alcuni colpi, immaginando come potevo ficcarlo nel collo di mio padre. Silenziosamente lo agitai davanti alla sua faccia, danzandogli intorno come un ragazzo africano; non si svegliò. La luce della luna scintillava sulla lama del coltello mentre io ballavo per la cucina, sollevando le ginocchia e scuotendo selvaggiamente la testa, sempre senza fare alcun rumore. Quando fui stanco, riposi il coltello e mi riempii la mano di briciole rafferme. Poi le feci cadere lentamente sulla faccia arrovesciata di mio padre e, benché lui scattasse e si agitasse e scacciasse le briciole agitando una mano, non si svegliò, tanto era profondo il suo intorpidimento.

* * *

Dopo l’incidente dell’aringa affumicata e della patata, Hilda divenne molto meno disponibile nei miei confronti. Decise, credo, che non poteva più tollerare il rischio che io rappresentavo per la sicurezza che aveva appena trovato — si era spinta troppo avanti perché accettasse di vedersela portare via dai discorsi a ruota libera di un ragazzo. Avevo visto l’espressione dei suoi occhi a tavola quella sera, avevo visto il moto di allarme quando avevo sputato il boccone di lische di pesce, e con quell’allarme era arrivata una nuova, preoccupata cautela: la colsi spesso nei giorni seguenti; Hilda si rivelò allarmata nei miei confronti come non era mai accaduto prima: naturalmente non rischiava di perdere solo il focolare sicuro del numero 27… Se avessero scavato nel campo di patate di mio padre, allora avrebbe perso ben altro che un focolare sicuro. Avrebbe «dondolato».

E così l’atmosfera al numero 27 divenne ancora più carica di tensione; aleggiò un nuovo nervosismo, una propensione all’ira in entrambi che io fui pronto a sfruttare. Hilda non dispensava più tazze di porto a Harold e Glad con quell’aria di allegra complicità — basta «Solo un goccio per riscaldarti, Glad, hai avuto una lunga notte». No, Hilda sentiva lo stress, era nervosa e preoccupata mentre sfaccendava in cucina. Io cercavo di peggiorare le cose. Le rubai il secchio e lo portai giù al canale, dove lo riempii di pietre e lo affondai. Lei si infuriò per aver perso il secchio, lo cercò dappertutto, perché naturalmente non poteva pulire il pavimento o il cortile o il gradino della porta senza un secchio. La vedo ancora seduta al tavolo della cucina quando mio padre tornò dal lavoro quel giorno (ascoltavo sulle scale); con una sciarpa annodata sui capelli (pieni di bigodini), sorseggiò il tè e disse: «Ho cercato dappertutto… I secchi non scompaiono così.» Grugniti da parte di mio padre, ed era difficile interpretarli. Era indifferente allo smarrimento del secchio? Stava aggrottando la fronte e scoprendo i denti inferiori nella sua ben nota smorfia di rabbiosa perplessità, e magari contemporaneamente volgeva gli occhi al soffitto, verso la mia camera, gettando su di me la responsabilità del secchio mancante? Sospetto di sì. Quando andai giù per la cena, Hilda scoprì le carte e mi chiese se sapevo qualcosa del secchio. Sedetti al mio posto, mi strinsi nelle spalle, guardai il soffitto e non dissi nulla. «Dennis!» scattò mio padre. «Rispondi a tua madre quando ti fa una domanda!»

Questa era bella. «Mia madre?» dissi io, chinandomi in avanti, mettendo le mani aperte sul tavolo e guardandola dritta in volto con gli occhi socchiusi. «Tu non sei mia madre.»