«Oh, di nuovo questa storia!» disse Hilda, voltandosi verso mio padre. Lui aggrottò la fronte, si tolse gli occhiali, si sfregò gli occhi. «Su, ceniamo,» disse stancamente. Esultai dentro di me per il faticoso silenzio nel quale venne consumato il pasto.
Più tardi, quella notte, li sentii parlare ancora in cucina, per cui scivolai in cima alle scale per ascoltare. La porta era accostata, e le loro voci erano basse, così che dovetti sforzarmi per capire cosa dicevano. Ma dopo un minuto o due riuscii a dargli un senso. Parlavano di me. Parlavano di mandarmi in Canada.
Tornai nella mia camera e chiusi la porta. Spensi la luce e mi misi vicino alla finestra, coi gomiti sul davanzale e il mento appoggiato alle mani. Quella notte c’era la luna che, al di là del vicolo, brillava su file e file di tetti di tegole bagnate. Mio padre aveva mandato mia madre in Canada, e lei adesso era in mezzo alle patate. Poi pensai a lui addormentato con la bocca aperta sulla sedia nella cucina, e un’idea incominciò a prendere forma nella mia mente, e aveva a che fare col gas.
Nei giorni seguenti non feci nulla per rendere la situazione peggiore di quello che era già. Non potevo riportare il secchio di mia madre — era sparito per sempre —, ma almeno non rubai nient’altro. I pasti erano tranquilli e normali, e non si ripeterono il crepitio della lampadina e l’abbassamento della luce. Nulla fu detto, ma sospettavamo profondamente gli uni degli altri, e questo aumentava la tensione che già incombeva sulla casa; nessuno voleva esacerbarla. Un periodo di prova, quindi, in cui l’unico avvenimento di una certa importanza fu il goffo tentativo di mio padre di gettarmi polvere negli occhi.
In quel periodo ero spesso agli orti — era la fine di gennaio, quando i giardinieri avevano poco da fare. Mi piaceva stare lì soprattutto al crepuscolo, verso le quattro e mezzo del pomeriggio, in particolare nei dieci o venti minuti prima che scendesse il buio vero e proprio, quando il cielo era grigio-azzurro, ma sul terreno le ombre si erano ispessite e gli oggetti perdevano rapidamente definizione. Quella passione che ho sempre avuto per la pioggia e la nebbia allora si ridestava, e io girovagavo felice da un orto all’altro e mi sentivo quasi invisibile. Ma vi fu un pomeriggio — gli orti erano deserti, tranne che per me — in cui vidi con sorpresa mio padre che passava in bicicletta sul sentiero lungo la recinzione, parallelo ai bastioni della ferrovia; io ero nell’orto di Jack Bagshaw, per cui scivolai dietro al suo casotto e, come spesso avevo fatto in precedenza, sbirciai dall’angolo per vedere cosa aveva intenzione di fare.
Lui aprì il cancello del suo orto, spinse la bicicletta sul sentiero e la appoggiò al casotto. Poi venne dietro il mucchio del compost e mi guardò deciso; io mi ritrassi subito. «Dennis,» chiamò.
Non dissi nulla; non mi muovevo, non respiravo quasi.
«Coraggio, figliolo, voglio solo parlare con te.»
Mi accosciai di botto e mi coprii le orecchie. Pochi istanti dopo, sentii la sua mano sul gomito. «Forza, figliolo, vieni nel casotto.»
Gli permisi di condurmi al casotto. Aprì la porta, mi spinse dentro, mi fece sedere nella poltrona mentre accendeva qualche candela. Poi si sistemò su una cassa di legno, i gomiti sulle ginocchia, la testa china in avanti; si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi con l’indice e il pollice della mano sinistra. «Cosa ti succede, figliolo? Perché ce l’hai tanto con noi?» Mi guardò con aria stanca e perplessa. «Eh?»
Io ero rannicchiato nella poltrona e fissavo le ragnatele. Il cuore mi batteva molto veloce; con un certo sollievo, sentii che Spider incominciava a ritirarsi, lo sentii allontanarsi in silenzio, lasciandosi dietro solo una cella vuota e polverosa: Dennis.
«Perché hai detto quelle cose a tua madre?»
«Non è mia madre,» dissi, anche se non avrei voluto dire niente.
Uno scatto di sorpresa. «E chi è allora?»
Non mi avrebbe ingannato di nuovo.
«Chi è, figliolo?» Adesso la rabbia montava.
Io guardavo le ragnatele; Spider cercava di infilarsi in un buco.
«Chi è, Dennis?» La fronte, i denti.
«È una sgualdrina.»
«Attento, scimmia disgustosa, che ti do un ceffone su quella testa!» Era in piedi, adesso, e incombeva sulla poltrona.
«È una grassa sgualdrina!»
Mi schiaffeggiò sulla testa e io incominciai a piangere, non potevo farci niente. «Tu hai ucciso la mia mamma,» gridai attraverso le lacrime. «Assassino! Assassino! Maledetto assassino!
«Cosa?» Si lasciò ricadere sulla cassa. «Mi stai prendendo in giro, Dennis? Sai quello che dici?»
Mi rifugiai in un cupo silenzio di sfida; per quanto Spider volesse restarsene nel suo buco, quel ceffone sulla testa l’aveva costretto a uscire, e la sensazione di calore e di tintinnio gli impediva di escludersi di nuovo. Mio padre aggrottò la fronte; disse che non capiva di cosa stessi parlando. Ero scemo?, disse. Nuova grattatina alla testa mentre sedeva sulla cassa. Continuava a guardarmi, come se non mi avesse mai visto prima, poi distolse gli occhi. Incominciò a dirmi che mi stavo comportando da stupido; disse che non sapeva da dove pigliavo quelle idee, che passavo troppo tempo da solo, che dovevo farmi degli amici: alla mia età, lui aveva degli amici, tutti i ragazzini avrebbero dovuto avere degli amici, e continuò e continuò, e mentre la sensazione di calore e di tintinnio diminuiva, scoprii che potevo allontanarmi, ritirarmi di nuovo nei posti bui e segreti, e proprio quando lo facevo, accadde una cosa strana: mio padre sembrò restringersi. Improvvisamente fu come se fosse molto lontano, anche se in quel momento sapevo che era a pochi metri da me. Ma ai miei occhi era distante e minuscolo, e la sua voce suonava come se attraversasse un’immensa distesa di spazio prima di arrivarmi, e quando mi raggiungeva c’era una risonanza vuota e metallica che oscurava il senso e il significato delle parole, sì che erano soltanto echi, vuoti echi in un casotto triste sotto il tetto del quale i ragni tessevano reti che luccicavano e brillavano e scintillavano alla luce delle candele, e mi facevano sentire debole; il tempo rimase immobile finché lo sentii dire chiaramente: «Dennis? Dennis? Credi ancora che l’abbia uccisa?»
Non dissi nulla. Era ritornato a essere concreto e reale, e il senso di debolezza era sparito.
«Rispondimi, figliolo. Credi ancora che abbia ucciso tua madre?»
Cosa potevo fare? Avevo paura di lui. Scossi la testa.
«Meno male,» disse. «Andiamo a casa.»
Lasciammo il casotto e percorremmo il sentiero fra gli orti; lui spingeva la bicicletta. Mentre oltrepassavamo la tomba di mia madre, mi venne in mente che non si era offerto di vangare il campo delle patate, ma naturalmente non lo dissi (anche se dubito che avremmo trovato qualcosa: era risorta, ormai, ma lui non lo sapeva). Hilda ci aspettava in cucina. Guardò ansiosamente mio padre, che mi teneva una mano sulla spalla mentre entravamo dalla porta sul retro. Spider si era ormai ritirato in uno dei suoi buchi più oscuri. «Tutto bene, allora?» disse lei, e mio padre annuì; con palese sollievo, Hilda incominciò a trafficare. «Sedetevi,» disse, «sono uscita a prendere qualcosa di buono per la cena.» Erano anguille.
Così sedetti in silenzio in cucina e mangiai le anguille; ma neanche per un minuto dimenticai che, malgrado tutti i discorsi di mio padre, pensavano sempre di mandarmi in Canada.
È notte fonda mentre scrivo queste cose e non so se riuscirete a comprendere l’ansia che provo nell’affidare i miei pensieri alla carta. Se lei dovesse trovare questo quaderno, le conseguenze sarebbero terribili, e non voglio pensarci, non alla luce di ciò che emerse più tardi a Kitchener Street — quando saprete tutta la storia, capirete la mia apprensione. Sono abbastanza soddisfatto del caminetto come nascondiglio, anche se ha lo svantaggio di essere pieno di fuliggine: dopo appena pochi giorni, il quaderno è diventato talmente sporco che ho dovuto infilarlo in un sacchetto di carta prima di riporlo e usare i guanti per non insozzarmi le mani. Questo sistema ha funzionato bene fino a ieri mattina, quando ho capito che, se lei avesse trovato i guanti sporchi, avrebbe avuto dei sospetti e sarebbe andata a ficcare il naso nel caminetto per vedere cosa combinavo — il che mi lasciava il problema (sono pignolo fino all’assurdità, direte, ma credetemi, non posso permettermi di correre rischi), il problema di trovare un nascondiglio sicuro per i guanti (sotto il linoleum, magari?) o, in alternativa, di liberarmi di essi. Scelsi la seconda possibilità: ieri li ho buttai nel canale e li ho guardati impregnarsi d’acqua e finalmente affondare. Ciò significa che (a) devo lavarmi le mani ogni volta che tiro fuori e rimetto via il quaderno (il che necessita di un viaggio in bagno lungo il corridoio), e (b) prima o poi dovrò spiegarle che ho perduto i guanti e, come potete immaginare, non è un colloquio che aspetto con piacere. Ma ecco perché è così essenziale che lei non trovi il quaderno: vedete, io credo che sappia chi è.