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Ero rientrato a casa, un pomeriggio di qualche settimana fa, dopo alcune ore passate a camminare nelle strade. Stavo attraversando l’ingresso diretto alle scale quando mi capitò di sbirciare verso la cucina, che si trova in fondo a un breve corridoio dietro all’ingresso, a sinistra della scala. Il corridoio era buio, ma in cucina la luce era accesa e lei era in piedi in mezzo alla stanza, appoggiata al tavolo, con le maniche rimboccate e un matterello in mano. Niente di insolito in questo, naturalmente; stava aiutando la piccola cuoca straniera che tentava di fare un pudding di carne e rognone e forse le stava insegnando il metodo inglese. Ma ciò che attrasse la mia attenzione verso questa scena vivacemente illuminata, incorniciata com’era nella porta della cucina in fondo a quel breve corridoio scuro, era il modo in cui impugnava il matterello, il modo in cui si alzava sulle punte dei piedi e si appoggiava allo strumento in maniera che tutta la forza e il peso delle grosse spalle fosse trasmesso alle braccia robuste e, attraverso i polsi, alle paffute dita delle mani porcine, le cui unghie, vidi con un vero brivido di accettazione e di orrore, malgrado apparissero impolverate di farina, erano sporche. Per un attimo, passato e presente si sovrapposero perfettamente, diventarono identici, e ci fu una sola donna che si appoggiava al matterello, e quella donna era Hilda Wilkinson; in quel momento, la donna in cucina era trasfigurata, i suoi capelli erano biondi con le radici nere, la sua pancia premeva contro il tessuto di un grembiule non suo, e le sue gambe massicce erano piantate sul pavimento della cucina come due tronchi d’albero e andavano su e giù mentre lei si alzava sulle punte a ogni spinta — giù! — dell’attrezzo sulla pasta. A questo punto mi ero avvicinato, ero entrato nel corridoio e stavo guardandola a bocca aperta quando lei si voltò, ansimando rauca verso la porta, e si scostò una ciocca di capelli sudati dalla fronte. Il suo mento! Come aveva potuto sfuggirmi? Aveva il mento di Hilda, grande e sporgente, prognato, proprio uguale! «Ah, signor Cleg,» disse — e io tornai al 1957 con la mia padrona di casa.

Una pausa: non riuscivo a pensare a niente con lei lì al tavolo, girata verso di me, la faccia interrogativa. «Voleva qualcosa, signor Cleg?»

«No,» dissi, ma mi uscì solo una specie di rauco sussurro. «No,» dissi, con più successo, e fu soltanto con il massimo sforzo che riuscii a rimettermi in movimento perché, durante quei pochi istanti nel corridoio, mi ero scollegato.

«No?» disse lei, mentre mi allontanavo, con la ben nota traccia di ironia presente nella sua voce. «Una bella tazza di tè, signor Cleg?» Ma io dovevo andare di sopra, per cui fuggii senza dire una parola di più. Una volta guadagnata la sicurezza della mia stanza, guardai il parco di sotto e tentai di arrotolarmi una sigaretta, ma le mani mi tremavano tremendamente e feci cadere metà del tabacco sul pavimento; ci vollero alcuni minuti prima che mi riprendessi e riuscissi a mettermi carponi e recuperarlo.

All’inizio, non capii cosa dovevo fare. Mi succede spesso che solo quando tutti gli altri sono andati a letto riesco a pensare in modo corretto in questa casa: prima ci sono troppe interferenze, troppi schemi di pensiero che bloccano le onde, se capite quello che voglio dire — questa non è l’ultima delle ragioni per cui passo tanto tempo giù al canale, perché se non sto attento i loro schemi di pensiero scacciano il mio, e io non posso accettarlo, non posso avere pensieri altrui nella testa, ne ho avuti già abbastanza in Canada. Accade la stessa cosa quando sono tutti svegli nella casa, anche se sono in camera mia con la porta chiusa; lasciate che ve lo dica: per quanto siano anime morte, i loro pensieri sono grotteschi, e questo si collega alle creature del solaio, ma ne parlerò più avanti. No, quello che capii appena riuscii a pensare chiaramente — cioè in piena notte — fu che dovevo confermare la prima vivida impressione avuta nell’ingresso; non aveva senso pensare a nulla finché non facevo questo.

Erano circa le tre del mattino quando capii che, se io sapevo chi era lei, lei sapeva chi ero io — e le implicazioni erano molto preoccupanti, anche se mi ci sarebbero voluti ancora alcuni giorni per rifletterci su accuratamente.

Il giorno seguente fu umido e freddo. Dopo colazione, lasciai la casa come al solito, ma invece di raggiungere il canale andai nel piccolo parco al di là della strada. La casa della signora Wilkinson si trova sul lato nord di una piazza che un tempo doveva essere davvero notevole. Oggi, però, le grandi dimore con le facciate di stucchi e le colonne corinzie sono scrostate e decrepite; molte sono state abbattute e quelle tuttora in piedi sono abitate solo da ratti o fantasmi o relitti come me. Sedetti su una panchina nel parco in mezzo a questa piazza devastata, sotto ad alberi spogli e a un cielo grigio ardesia, fra bottiglie vuote e pacchetti di sigarette, e gettai briciole di pane ai corvi che vivono lì; con un occhio sorvegliavo, in attesa che lei uscisse.

Erano le undici passate quando finalmente emerse con addosso il cappotto e un sacchetto per la spesa al braccio; senza neanche gettare un’occhiata verso il parco, si allontanò lungo la strada. Lasciai passare cinque minuti, poi tornai dentro, attraversai l’ingresso e salii le scale fino all’ultimo piano dove lei, come me, ha la sua stanza (la sua, però, è dall’altra parte della casa). Mi fermai in cima alle scale ad ascoltare; nient’altro che la radio che suonava sommessa nel salotto, dove le anime morte ammazzavano il tempo distrattamente. Poi percorsi il corridoio fino alla sua porta — un’altra pausa, un altro momento di attento ascolto della casa —, quindi ruotai la maniglia e… niente! Chiusa a chiave! Aveva chiuso la porta a chiave!

Era un ostacolo, questo. Tornai da basso, uscii dalla porta e andai di nuovo nel parco al di là della strada, dove ripresi il mio posto sulla panchina e cercai di riflettere sulla faccenda. Chiudeva la porta a chiave. L’unica altra porta della casa chiusa a chiave era quella che dava sulle scale del solaio (e, naturalmente, quella del dispensario). Anziché attenuare la mia curiosità, questo sviluppo ebbe l’effetto opposto, infiammò il mio desiderio di sapere cosa nascondeva quella donna: dovevo impadronirmi delle sue chiavi.

Immerso in questi pensieri, senza fare alcun progresso, tirai fuori dalla tasca una fetta di pane tostato che avevo conservato dalla colazione e incominciai a sbriciolarla fra le dita, sparpagliandone i pezzettini intorno alla panchina. Ben presto i corvi svolazzarono giù, e quando il pane fu finito, tirai fuori il tabacco e mi arrotolai una sigaretta sottile, una «magra». E rimasi lì seduto, immerso nei miei pensieri, le gambe distese incrociate alle caviglie, a fumare tra i corvi.