Questa faccenda degli schemi di pensiero sembra che sia peggiorata molto negli ultimi giorni. Perché? La luna piena, forse? Ma no, la luna è solo un’unghia, come la luce sopra la porta d’ingresso. Forse, per qualche oscura ragione, le anime morte si sono risvegliate e generano energie cerebrali di un voltaggio insolitamente alto? Ma ho passato un’ora nel salotto dopo cena e non c’era alcun segno di vitalità: forse meno del solito, se possibile — sedevano nelle loro sedie abituali come un gruppo di manichini da sarto, stupefatte dai medicinali, le facce di lardo, le mani tremanti, i vestiti inadatti sporchi di cibo e di bava (Dio come sbavano!), in attesa che comparisse El Mustachio con la cioccolata. Parlo proprio io! Anch’io sbavo, tremo, inciampo e, come sapete, a volte mi scollego; ma che Dio mi aiuti, se diventassi mai una di loro: staccate la spina, per favore, se dovesse succedere; lasciatemi almeno indagare l’enigma della mia infanzia, finché ho la forza di volontà per farlo e, se si esaurisse, allora attaccatemi alla trave più vicina e lasciatemi penzolare come il ragno che sono! Poi entra la piccola donna straniera col vassoio, e questa è tutta la vita che vedremo qui stasera: il minuscolo, fioco fantasma di una scintilla che lotta debolmente per vivere negli occhi spenti dei miei compagni alla prospettiva di una tazza di cioccolata leggera preparata con latte in polvere e densa per lo zucchero che produce questi rotoli di ciccia sulle loro pance e sotto i loro menti. Hanno tutti corpi grassi qui, vedete — petti grassi, cosce grasse, dita grasse, facce grasse, e capelli secchi sempre pieni di particelle di forfora; quando mescolano la cioccolata, a questi zombie la forfora cade ondeggiando nelle tazze, come neve in fiocchi. Io mi volto dall’altra parte, mi volto verso la finestra e mi passo la mano sul cranio, che è quasi rasato dall’orecchio alla tempia, spruzzato in cima con qualche ciuffo della stessa tonalità di castano di mia madre. Mi posso grattare il cranio bitorzoluto per minuti interi senza che una sola particella di forfora si stacchi, perché la mia pelle è come cuoio, tesa com’è sulle ossa aguzze di questa mia testa oblunga, magra e cavallina: sì, cuoio bitorzoluto, così è la mia testa; zampe di ragno ad artiglio, queste sono le mie dita; e il mio corpo, un involucro con dentro ormai poco più che il fetido composto gassoso di ciò che un tempo era un cuore, un’anima, una vita — chi sono quindi per arricciare il naso davanti agli zombie, io che possiedo la stessa fragile resistenza di un guscio d’uovo, di una lampadina, di una pallina da ping-pong? No, non sono loro che riempiono l’aria di schemi di pensiero, vengono da un’altra parte, arrivano dal solaio. Ogni notte li sento, adesso; non dormo un solo istante, e l’unica cosa che li ha tenuti lontani finora e mi ha dato sollievo è stato scrivere il mio diario, come ho fatto. Il mio diario! Si può ancora definire così? Immaginatemi, in piena notte, carponi davanti a un vecchio caminetto a gas, che cerco alla cieca un sacchetto di carta marrone sporco di fuliggine. Allegramente lo prendo, mi alzo in piedi e mi avvicino silenzioso al tavolo dall’altra parte della stanza. Mi pulisco le mani sui pantaloni e lo tiro fuori dal sacchetto. Quel povero quaderno che poche settimane fa era nuovo, con una brillante copertina verde, adesso si arriccia agli angoli, è pieno di impronte nere delle mie dita — una cosa che non tocchereste se non per necessità, un quaderno sporco. Dopo essermi pulito le dita e aver messo da parte il sacchetto, apro il quaderno sporco e giro le pagine fino all’annotazione più recente, aggiungendo a ogni ditata un po’ di fuliggine, un po’ dello sporco della casa, trasferendolo dal camino al bianco dei fogli che ho davanti. Rileggo l’ultima annotazione, poi apro una pagina nuova e, arrestandomi per un attimo, gli occhi alla finestra, la matita fra le dita, per trovare le prime parole della prima frase che ancora una volta susciterà il flusso dei miei ricordi e contemporaneamente la costruzione di un edificio ragionevole di plausibili congetture, incomincio a scrivere.
Incomincio a scrivere. E nel farlo succede una cosa strana, la matita prende a muoversi lungo le sottili righe blu della pagina quasi come se avesse una volontà propria, come se i miei ricordi degli avvenimenti prima della tragedia di Kitchener Street non fossero contenuti nell’elmetto di cuoio bitorzoluto della mia testa, ma nella matita stessa, come se fossero minuscole particelle costrette nella lunga, sottile colonna di grafite, che scorrono sulla pagina mentre le mie dita, come un motore, forniscono loro semplicemente il mezzo meccanico per scaricarsi. Quando ciò accade, io ho la curiosa sensazione non di scrivere, ma di essere scritto, una sensazione che è giunta a provocare in me brividi di terrore, deboli all’inizio ma sempre più forti di giorno in giorno.
Sì, terrore. Oh, io sono una creatura debole, lo so, lo so meglio di voi, e spesso vado in confusione; sono facilmente preda della paura e del panico, e le cose peggiorano: non ve l’ho detto perché speravo che non fosse vero, che me lo stessi immaginando, che «fossi solo io» — ma non è così. L’impressione di essere come una lampadina l’ho continuamente, adesso. L’ho provata durante l’ora interminabile in cui mi costrinsi a sedere nel salotto. Non erano i loro schemi di pensiero che mi irritavano, gli schemi di pensiero vengono dall’alto della casa; erano solo i loro occhi spenti, soltanto i loro occhi spenti, un semplice sguardo di quegli occhi ha la capacità di mandarmi in pezzi, di frantumare la mia fragile identità in mille particelle e di lasciare il sottile frammento di filo appena luminoso all’interno — il residuo, la rovina di ciò che un tempo era un cuore, un’anima, una vita —, di lasciarlo nudo e vulnerabile, puzzolente di gas, in preda al mondo che senza dubbio lo spegnerà in un secondo: ed è per questo che, ora, devo evitare i loro occhi, è per questo che devo andare in giro di notte, condurre la mia insonne indagine sul misterioso passato come una creatura delle ombre, come una cosa dimezzata, un corpo senz’anima, o forse un’anima senza corpo — spettro o fantasma è poco importante, ciò che importa è che io protegga questo filamento luminoso in maniera da potermi finalmente vedere, da potermi guardare fino in fondo a questa storia, ed è per questo che sono così incline al terrore adesso, perché sono sempre consapevole del pericolo di rottura, che a sua volta mi spinge a desiderare il controllo, il che spiega perché la sensazione di essere plagiato, ingabbiato, scritto, mi fa così disperatamente paura. Perché ciò che può scrivermi, senza dubbio può anche distruggermi.
Ma devo andare avanti: che altra scelta ho? È anche possibile (ho fumato, e le cose non appaiono mai così cupe dopo una fumata) che io stia esagerando le mie difficoltà. Dopo tutto ho dei piani, dei modi per gestire la situazione: ne ho fin da quando ero ragazzo. Per esempio, esiste la ben nota fuga nella zona più inaccessibile della mia testa: non è solo il ragazzo Spider che si ritirava nella zona di dietro dopo la morte di sua madre e lasciava Dennis ad affrontare il mondo. No, nel corso degli anni Spider ha imparato che spesso è necessario lasciare che Dennis, o il «signor Cleg», per quel che conta, affronti il mondo; non solo, ma sono diventati indispensabili degli spazi intermedi — col dottor McNaughten, per esempio, che conosce la mia storia. Il davanti della mia testa non soddisfa il dottore, per cui ha il permesso di entrare in contatto con quello che era il retro, ma che adesso è una sorta di camera occupata da un Dennis Cleg con la «mia storia» — ma Spider non è mai lì! Spider è da un’altra parte, anche se il dottore non sospetta nulla. Allo stesso modo, con le anime morte: tutto va bene, basta che Spider sia da un’altra parte — ma lasciate che mi mostri per un solo istante sul giro più esterno della ragnatela in cui vive il mio essere fragile e afflitto, e in quel momento io sono distrutto. È così che funziona per me.