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Ma cos’è che non va in me, il fatto che per salvarmi la vita devo seppellirmi all’interno di giri, giri retti da raggi che formano zone — campi! — con dentro solo cose morte, camere fetide, vuote, dove vagano ombre e penne, polvere di carbone e mosche stecchite, dove l’odore di gas è onnipresente, e non c’è altro… questi buchi, intendo, questi buchi puzzolenti che ho costruito intorno a Spider per salvarlo dalla gogna e dalle tempeste del mondo? Che vita è una vita che può solo condursi, morta, nel mozzo di questa struttura cadente di celle vuote, simile a una ruota?

* * *

Quando mi portarono via da Kitchener Street passò qualche tempo prima che decidessero cosa fare di me. Ricordo pochissimo di quel periodo: una confusione di uomini e stanze, e ovunque l’atmosfera piena di schemi di pensiero, e sempre un senso di terribile tensione, simile a quella che mio padre riusciva a generare in cucina all’ora di cena. Allora capii che la catastrofe era imminente, e mi sentii più intensamente fuori posto. La luce non era mai chiara, mi sembrava sempre di essere nell’ombra, e che lo fossero anche gli altri, gli uomini che si spostavano con me di camera in camera, tutti nell’ombra scura, come se un crepuscolo permanente si fosse installato in quelle stanze e rendesse tutte le forme e le facce indistinte — e anche le loro voci diventavano basse, profonde, rimbombavano e riecheggiavano fuori dall’ombra che le fasciava, e l’aria, l’oscurità in cui mi muovevo, era densa di schemi di pensiero non miei. Vivevo e agivo nel terrore, allora, rifugiandomi disperatamente nelle zone di dietro finché strisciavo, esausto, in quel buco in cui almeno per qualche breve momento potevo essere al sicuro.

Più tardi, il mondo tornò a mettersi a fuoco. Le ombre arretrarono, e io non ebbi più quell’eco rimbombante di voci nelle orecchie, riuscii a distinguere un uomo dall’altro e, anche se sapevo che intendevano farmi del male avevo nello stesso tempo la sensazione che ciò potesse ancora non accadere, o che quando ciò si fosse verificato, sarebbe avvenuto con tale rapidità e da un punto talmente imprevisto che non aveva senso mantenere più di un ragionevole livello di vigilanza durante la mia routine. La routine! Quelli furono i giorni della routine. Dalla mattina alla sera, tutto era routine, ogni giorno uguale al precedente e a quello successivo: e in questo trovavo un certo conforto, almeno durante i periodi tranquilli, quando sentivo di poter affrontare gli schemi di pensiero, quando non continuavano a levarsi contro di me, riempiendo l’aria con il loro ronzio di scariche e i loro schiocchi, come una tempesta di germi in costante eccitazione intorno alle mie orecchie e dietro la mia testa, finché non era possibile sfuggirli, neppure nei tranquilli recessi in cui solo Spider poteva intrufolarsi — quando ciò avveniva, allora nessuna routine al mondo poteva impedire che fossi tormentato dal terrore per il disastro che stava per abbattersi su di me. Loro però sembravano sapere sempre quando questo era sul punto di accadere e mi portavano in una camera sicura, mi tenevano lontano dal male finché non ero di nuovo tranquillo. Ma quello che rendeva tutto così fastidioso, a ripensarci adesso — e non ve l’ho detto prima perché me ne sono ricordato soltanto ora —, è che a quei tempi c’era sempre, sempre, sempre il pervasivo e opprimente e sporco odore di gas.

Passò del tempo. Vent’anni è durato il mio Canada. Oh, basta! Il mio Canada — il mio Ganderhill! Con le tue mura di mattoni rossi scoloriti, i tuoi cancelli e le tue porte sbarrate, i tuoi cortili e corridoi, i tuoi giardini in cui uomini con le pantofole della misura sbagliata e scarpe scricchiolanti sedevano contorcendosi e sussultando sulle panchine di legno, mentre i loro folli occhi irrequieti guardavano oltre le terrazze un campo da cricket più in basso, e al di là il muro di cinta, al di là la campagna distesa e le colline boscose del Sussex in lontananza… Durante gli ultimi anni a Ganderhill, lavorai nell’orto; indossavo robusti stivali neri e informi pantaloni di velluto gialli. Ricordo il profumo dell’erba appena tagliata in estate, un profumo che mi torna in mente adesso con una forza tale che smetto di scrivere, quasi convinto che sia nella stanza — il profumo dell’erba appena tagliata, qui in questa soffitta gelida, a mezzanotte! Qui, in questa cupa stagione di nebbia e pioggia, in cima a questo obitorio di casa — erba appena tagliata! Fuori, nelle strade umide e buie, le foglie morte ostruiscono le grondaie e i tombini e si ammucchiano lungo le alte recinzioni metalliche con le punte aguzze — e Spider sente un profumo di erba appena tagliata! Oh, mi vedo seduto a questo tavolo traballante con tutte le mie magliette e i miei golf, la matita appoggiata sulla pagina macchiata del diario e la lunga testa cavallina sollevata, appesantita dalle ombre nelle cavità delle guance e degli occhi, una lampadina bitorzoluta di testa che si alza, annusando, una «magra» spenta attaccata alle labbra, nel buio, mentre i ricordi del cricket del manicomio tornano alla mente, portando con sé il profumo dell’erba appena tagliata! Sciocco, Spider! Ma è meglio sentire erba che gas.

Che dirvi di quegli anni? Il signor Thomas è stato il primo ad apparirmi in modo distinto quando il mondo incominciò a rimettersi a fuoco; non minacciò mai di distruggermi con i suoi occhi, come facevano gli altri. Quei suoi dolci occhi marrone: la pelle intorno era segnata da minuscole rughe; mi rassicuravano, non so perché. C’era anche la pipa, l’eterna pipa, e non so per quale motivo anch’essa mi rassicurava, ma era così: il continuo succhiare punteggiato — a distanza di qualche minuto, quando se la toglieva dalle labbra — dall’esalazione del fumo; forse l’odore del tabacco, la fragranza. Dopo cena restavo in reparto, leggevo, giocavo a carte, facevo un puzzle. Era una vita tranquilla.

Il primo reparto in cui soggiornai a Ganderhill era quello che chiamavano «un reparto duro». Non era difficile capirne la ragione: non c’era una sola sedia morbida in quel posto (a parte, naturalmente, nella sala del personale, vicino alle scale). Gli uomini dormivano molto in quei reparti, e io non facevo eccezione. Dopo colazione, mi distendevo su una panchina, il legno tutto rovinato da bruciature di sigaretta, e usando la scarpa come cuscino mi appisolavo e tentavo di restare in uno stato comatoso il più a lungo possibile. Chi se ne interessava? Nessuno. Nei «reparti duri» li uomini erano muti, incontinenti, allucinati. Se non riuscivo a occupare una panchina, mi mettevo semplicemente per terra, sotto una coperta. Nessuno se ne interessava. Eravamo tutti immobili e chiusi in noi stessi, laggiù, e in questo c’era un certo piacere. Quello che non mi piaceva erano i bagni senza porte: non riuscii mai a farci l’abitudine; era un’umiliazione dolorosissima per me sedere sul gabinetto in un bagno senza porta, esposto agli sguardi casuali di chi passava: mi viene in mente adesso che gran parte dei problemi che in seguito ho avuto con l’intestino (che fu spinto verso la schiena e si arrotolò alla spina dorsale dal sedere al cranio, come un serpente) potrebbero essere nati dai disturbi alla funzione escretoria sofferti nel «reparto duro».

Nel «reparto duro» imparai ad arrotolare sigarette «magre» e «grasse»: prendevamo il tabacco sul serio lì. E una cosa strana, non importa quanto un uomo sia sprofondato nella malinconia, nella follia — alla deriva, si potrebbe dire, tagliati tutti i ponti con la società —, in qualsiasi caso egli non mancherà mai di prestarvi il suo mozzicone per accendere la sigaretta: non esiste una pazzia talmente grave da escludere dalla comunità del tabacco. Ecco un’altra cosa strana: un uomo ottiene una vera sigaretta da un infermiere, una Woodbine, una Senior Service. Si siede su una panchina a fumare. Lì vicino c’è un altro uomo, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, il volto inespressivo, che aspetta passivamente. Al momento giusto, gli viene dato il mozzicone. Lo fuma fino a bruciarsi le dita, poi lo lascia cadere sul pavimento. Un terzo uomo lo raccoglie immediatamente e, senza preoccuparsi se si scotta le dita, fuma quello che resta.