In un «reparto duro» non ci si aspettava niente da te, se non un fallimento. Eri lì perché avevi già fallito: fallire era ciò che avevi fatto, dovevi fallire di nuovo. In questo, Spider trovava conforto, una certa vigilanza poteva essere allentata. Ciò che lo confortava era l’indifferenza: nessuno si curava di niente, se non veniva danneggiato. La routine era basilare e solida, pochi rozzi paletti per dare forma alla giornata: fare la coda per i pasti davanti al reparto, restarci per venti minuti, poi scendere di nuovo le strette scale, cancelli che sbattevano, chiavi sulle sbarre, le grida degli infermieri lontani, una fila di pazienti grigi con magliette e pantaloni della misura sbagliata e scarpe ciabattanti — niente cinture o stringhe in un «reparto duro» —, allinearsi nel vasto ambiente risonante della sala da pranzo e passare lungo tavoli su cavalietti, dietro ai quali gli inservienti della cucina con i grembiuli bianchi e unti vi sbattevano sul piatto delle porzioni di verdure frullate e carne di cavallo, o di cane, o di pesce vecchio. Per dolce, torta ammuffita e crema con i grumi. Nel tardo pomeriggio, il ritmo della giornata si allentava, e nelle ore prima di cena eravamo rinchiusi oppure raggruppati nel salone sotto la sorveglianza di un solo infermiere. Era qualcosa che odiavo, essere insieme agli altri in quel modo, e invano chiedevo il permesso di unirmi ai due o tre privilegiati che vagavano nel reparto per conto proprio.
Talvolta qualcuno si arrabbiava — ricordo John Giles, un uomo grosso, furibondo per la sospensione dei suoi privilegi, che imprecava facendo avanti e indietro nella sua stanza; mentre passavo diretto al salone, rammento di aver pensato: John sta per esplodere. Forse ne parlai con qualcuno, non ricordo — poi all’improvviso il rumore di una finestra fracassata, ed era John Giles naturalmente. Ci riversammo fuori dal salone, ma non prima che gli infermieri accorressero all’altra estremità del reparto — che rumore facevano i loro stivali sulle piastrelle! —, dove John, sputando e bestemmiando, stava tremante sulla sua soglia, stringendo un brutto pezzo di vetro scheggiato. Non gli saltarono addosso, non con quel pezzo di vetro in mano. «Mettilo giù, John,» disse uno di loro, «dai, John, fai un piacere a tutti.» Ma John era decisamente fuori, sputava e sogghignava, e diceva loro cosa gli avrebbe fatto se si fossero avvicinati ancora. Allora due infermieri entrarono in una stanza. Un attimo dopo ne uscirono di corsa, reggendo un materasso come scudo. Finirono sopra al povero John, e l’unica cosa che riuscii a vedere furono le sue braccia e le sue gambe che si agitavano ai lati del materasso mentre lottava inchiodato alla porta, le grida soffocate dal materasso. Al momento giusto, lasciò andare il vetro, e poco dopo lo tirarono su stretto nella camicia di forza e lo portarono in una camera di sicurezza in fondo al reparto, dove lui urlò fino a diventare afono e poi cadde addormentato. Ma vi ho raccontato la storia solo per il seguito. Giù in cortile, una settimana dopo, frugando in un’aiuola di fiori, trovai un pezzo di vetro a forma di pugnale e, alzando gli occhi, capii che proveniva dalla finestra che John Giles aveva fracassato. Lo portai in reparto e lo mostrai al signor Thomas. Lui mi fece entrare in una stanza laterale, dove su un tavolo aveva ricostruito l’intera finestra, ogni frammento al suo posto come in un puzzle — ogni frammento, cioè, tranne uno. Prese il mio pugnale di vetro e lo infilò nell’ultimo sottile buco, completando la finestra distrutta e, con un grugnito di soddisfazione, si voltò verso di me e disse: «Ero preoccupato per quel pezzo, Dennis, ci ho perso il sonno; immaginavo che qualcuno ci avrebbe rimesso un occhio.» Quindi mi mise una mano sulla spalla, e io tornai nel reparto — cosa strana, questa — quasi soffocato dalla pura gioia di quel gesto.
Una vita tranquilla, quindi, perché mi calmai. E fu solo dopo essermi calmato che riuscii a pensare di nuovo a Kitchener Street. Spesso, mentre sedevo su una panchina in terrazza e guardavo gli uomini lavorare negli orti, zappando o seminando, pensavo a mio padre nel suo orto alla domenica, che forse faceva quegli stessi lavori, perché tutti i campi di patate si assomigliano. Ma dopo aver pensato ciò, mi ricordavo immediatamente che il campo di patate di mio padre in realtà era diverso da tutti gli altri, per la semplice ragione che mia madre era stata seppellita lì. E con questo pensiero, se non prestavo attenzione, dentro di me si scatenava rabbiosa e ribollente una tale inondazione che a volte era il vostro vecchio Spider a finire stretto nella camicia di forza e trascinato in una camera di sicurezza (torcendo la testa per evitare l’odore di gas)! Ma col tempo imparai che c’erano modi per riandare con la mente a Kitchener Street e alla tragedia senza perdere il controllo (dipende tutto dagli scompartimenti) e riuscii a pensare questi pensieri anche quando, anni più tardi, ottenni di lavorare negli orti. Un filone di memorie particolarmente ricco mi si rivelò, ricordo, mentre stavo smuovendo il compost dell’istituto, in un tempestoso giorno di novembre.
Mi fermo; è molto tardi, ormai. Mi prendo un momento per riaccendere la sigaretta. La casa è perfettamente silenziosa intorno a me; fuori, la pioggia è cessata, e anche le strade sono immerse nel silenzio. È una cosa strana stare qui seduto col quaderno aperto davanti, la matita in mano, ricordando un periodo di ricordi. È sempre così, mi chiedo? Il fumo sale in pigre volute verso la lampadina che crepita leggermente in alto; mi appoggio allo schienale, le dita intrecciate dietro alla testa, le gambe distese incrociate alle caviglie, e lo guardo disperdersi nella luce. Un ricordo è sempre e soltanto l’eco della sua ultima occasione? Che a sua volta è solo un’eco di quella precedente? Un tremito di disagio nella pancia; a questo pensiero, un piccolo brivido di allarme: come nelle appuntite strutture a incroci dei gasometri, c’è qui l’orrore della molteplicità, l’orrore della riproduzione; eppure ciò che ricordai in quel tempestoso giorno nell’orto (mi appoggiavo al manico di un forcone da giardino, l’odore del compost forte nelle narici), ciò che ricordai sembra adesso così fresco, così nuovo, così acuto e chiaro che non posso dubitare, non posso dubitare, per la semplice ragione che l’ho visto: ero là, mi aggiravo nei pressi degli orti nei giorni dopo Natale, nel caso mia madre tornasse. E mio padre, vedete, stava lavorando il suo compost.
Un mucchio di compost ben fatto (parlando da giardiniere) è una struttura a strati che si riscalda e si decompone rapidamente. Rifiuti di cucina, foglie morte, residui di piante — tutto ciò crea un buon compost, tutto contribuisce al buon concime scuro e friabile che arricchisce anche il terreno più povero. Aggiungete uno strato di letame o di sangue rappreso, poi della terra, e ricopritelo con cenere di legna. Così mio padre preparava il suo compost in autunno, strato dopo strato, fino a un’altezza di un metro e mezzo, il tutto all’interno di un recinto fatto di pali di legno e rete metallica. Aveva bagnato ogni strato mentre lo stendeva e con le mani aveva fatto una piccola depressione alla sommità, per formare un incavo in cui l’acqua piovana potesse fermarsi.
Quel giorno stava voltando il mucchio, facendogli prendere aria in maniera da assicurare una decomposizione uniforme e da impedire un surriscaldamento; ma aveva appena preso la prima palata quando, con sua grande sorpresa vide che il mucchio si muoveva, che l’interno esposto all’aria era vivo. Tirò fuori gli occhiali (io lo guardavo da dietro il casotto nell’orto vicino, quello di Jack Bagshaw; era una giornata triste, umida e fredda) e scoprì che il suo compost era infestato di vermi.