Ma basta, basta con questa patetica nostalgia, con questo romanticume. Cosa voglio dire: che ero un eroe? In piedi su una collina ventosa, con una vanga in mano? Un eroe? Questo pazzo? Vivevo in mezzo a pazzi criminali e conoscevo la routine, la comunità e l’ordine. Qualsiasi forza morale o struttura avessi, proveniva da fuori, non da dentro, e se avete bisogno di una prova di ciò considerate quello che è successo dopo la mia dimissione — osservatemi adesso, mentre scribacchio terrorizzato e solo in questa stanza, impegnato in qualche patetico tentativo di zittire le voci del solaio. E neppure la struttura dell’istituto era sufficiente, a volte! Talvolta Spider crollava, tutta l’impalcatura andava in pezzi e lui cadeva, povero scemo, rovinava a terra di schianto e si svegliava nella camera di sicurezza con l’involucro a pezzi.
Ma la cosa importante è che, a poco a poco, misi insieme un resoconto di ciò che era avvenuto e, man mano che la storia si consolidava, io mi rafforzavo con essa. Al contrario, quando la storia collassava, anch’io crollavo, ma la ricostruii, la ricostruii, e ogni volta l’edificio diventava più forte, meglio sostenuto; le travi e i piloni lo tennero insieme finché non fu solido e completo. E lo fui anch’io. E allora mi dimisero.
C’è dell’ironia qui, come capirete. Molte cose stavano cambiando; esistevano pastiglie per le persone come me, e inoltre stavano avvenendo dei cambiamenti anche a Ganderhill — soprattutto la partenza del direttore sanitario, il dottor Austin Marshall.
Il dottor Austin Marshall era un gentiluomo, un signore alto e gentile, che indossava abiti di sartoria e camminava con una leggera zoppia a causa di un incidente motociclistico avvenuto durante gli anni dell’università, che l’aveva lasciato con un chiodo di acciaio nell’anca. Un gentiluomo: erano rari i giorni in cui non vedevo il dottor Marshall zoppicare sulla terrazza e dire una parola gentile a tutti i pazienti che incontrava; si ricordava dei nostri nomi, perfino. «Ah, Dennis,» mi diceva, fermandosi e appoggiandosi al suo bastone, «come stiamo oggi?» Voltava la testa verso sud e contemplava quel magnifico panorama, come un proprietario terriero che osservasse la sua tenuta. «Bella giornata per andare a cavallo,» diceva. «Che ne diresti, Dennis? Ti piacerebbe una galoppata? Ma certo che ti piacerebbe!» Mi metteva una mano sul braccio e, ridacchiando gentilmente, si allontanava zoppicante; poi, incontrando un altro paziente, si fermava di nuovo, di nuovo girava la testa verso sud e, rivolgendoglisi per nome, di nuovo faceva la sua amichevole osservazione sulla cavalcata. I suoi argomenti di conversazione erano pochi, ma il calore delle sue parole era genuino; era un buon direttore sanitario e tutti gli volevamo bene, con l’eccezione di John Giles, che tentava di ammazzarlo ogni volta che poteva.
Mi alzo in piedi e guardo fuori dalla finestra. Compaiono i primi pallidi segni dell’alba, un debole grigiore che si diffonde laggiù, da qualche parte sul Mare del Nord. Tutto è tranquillo in solaio, adesso, e il mio terrore si è un po’ attenuato. Il mio rapporto con questo quaderno sta cambiando: quando ho incominciato a scrivere, intendevo registrare le conclusioni a cui ero arrivato sui fatti dell’autunno e dell’inverno dei miei tredici anni; pensavo che, nel corso del lavoro, mi sarei sostenuto e rafforzato, avrei consolidato la mia identità scossa, perché da quando mi hanno dimesso non sono più forte. Poi tutto è cambiato; adesso scrivo per controllare il terrore che mi prende quando ogni notte iniziano le voci dal solaio. Sono peggiorate, sapete, molto peggiorate, ed è solo grazie al flusso delle mie parole che riesco a bloccare il clamore delle loro. Non oso pensare alle conseguenze se dovessi smettere di scrivere, e ascoltarle.
Così incominciò un altro giorno. Non sapevo più cos’era meglio, se i giorni o le notti. Un tempo, il silenzio e la solitudine della notte erano stati il mio rifugio, il mio luogo sicuro, lontano dagli occhi e dalle voci e dagli schemi di pensiero che sembravano più attivi quando gli altri ospiti della casa erano svegli. Adesso temevo la notte, perché quelle maledette creature in solaio non mi davano tregua. Ero fuori sul pianerottolo, pochi minuti fa, e scuotevo la maniglia della porta che dà sulle scale del solaio — invano, naturalmente, è sempre chiusa a chiave. Sono le sue creature, non devo dimenticarlo, per questo la porta è sempre chiusa a chiave; ma riuscirò a trovare un modo per impadronirmi delle chiavi…
Fumo fino all’ora di colazione, guardando il cielo. Banchi di nuvole grigie e gonfie — sarà una giornata umida, oggi pioverà. Ho indosso tutte le mie magliette e, sopra, un maglione col colletto e poi la giacca del mio vecchio vestito grigio. Pantaloni, calze grigie pesanti (due paia), e un comodo paio di scarpe di cuoio nero con la suola spessa con dieci buchi ravvicinati per le stringhe (occhielli) e una specie di striscia di cuoio a forma di fiamma fissata sulla punta e costellata di forellini decorativi. Scarpe da manicomio, queste, fatte dal ciabattino di Ganderhill. Ho anche delle strisce di carta da pacco marrone e di cartone sottile attaccate alle gambe e al torso, che scricchiolano quando mi muovo.
La colazione è stata priva di avvenimenti di rilievo — occhi spenti, da pesce, su tazze di porridge, le solite scoregge stridule. Poi subito fuori nella pioggia, verso il canale: e le strade, per fortuna, erano vuote, tranne che per una strana fìgura frettolosa con l’ombrello e una ragazza cieca che batteva col suo bastone. Notavo dettagli del mondo che mi erano nuovi: la lamiera ondulata che recintava una discarica aveva punte taglienti, simili a una fila di lance; un muro di mattoni aveva dei cocci di bottiglia immersi nel cemento sulla cima e, sotto, dipinte a grandi caratteri neri le parole DIVIETO DI SCARICO. C’erano erbacce che spuntavano dal cemento, dure come cardi, secche eppure fragili. Poi sotto il viadotto, le arcate annerite dalla pioggia — ed ero ormai bagnato, sentivo su di me l’odore del bagnato. Tirava vento, c’erano cacche di cane per terra. Da un muro pendeva un pezzo di stoffa a righe e il vento, afferrandolo, lo sbatteva verso di me, come una sorta di messaggio. Mi arrestai alla strada principale e feci passare il traffico, lo feci passare finché non riuscii ad attraversare. Sembravo diretto al fiume; credevo di andare al canale.
Il vento era più forte vicino al fiume; dovetti abbottonarmi la giacca e alzare il bavero. Trovai una panchina: due basi di cemento, ciascuna con un braccio sporgente, a cui erano imbullonate orizzontalmente tre assi verdi con striature grigie; altre tre erano fissate in verticale per la schiena. Ero bagnato, non mi interessava, ma ero bagnato. Davanti a me una ringhiera nera arrugginita, poi il fiume, grigio-verde, che scorreva veloce e agitato nel vento. Una struttura di pali di legno a qualche metro di distanza. In lontananza, una distesa di case dietro a una foresta di gru che puntavano come ubriache in tutte le direzioni, come se stessero per cadere. Cielo grigio, le grandi nuvole panciute che si spingevano pesantemente verso est sospinte dal vento. La pioggerellina crea una foschia che mi confonde, mi bagna, fa assumere al maglione di lana nero un odore strano. Tiro fuori il tabacco e, con la prima buona boccata, giunge il pensiero: oggi devo tentare nuovamente di entrare in camera sua.