Tornai dal fiume molto bagnato, nel tardo pomeriggio, e andai subito di sopra. Avevo avuto l’idea di attraversare il canale, di andare a Kitchener Street, di vedere finalmente com’era, vent’anni dopo, ma ancora una volta qualcosa dentro di me — un’ansia profonda, una riluttanza, o una paura — non mi aveva permesso di mettere piede sul ponte, e avevo seguito il solito percorso lungo il canale ed ero tornato a casa. Adesso stavo alla finestra e rumavo una «grassa» mentre la luce si faceva più densa e i corvi battevano le ali sui rami nudi degli alberi del parco; ero lì quando sentii sbattere la porta d’ingresso e, un momento dopo, la vidi camminare lungo la strada con una sporta per la spesa al braccio. Schiacciai la sigaretta nella lattina che uso come portacenere e mi diressi velocemente verso la sua camera. L’avevo già fatto varie volte, quando ero sicuro che era fuori di casa. Stavolta la porta era aperta, per cui entrai senza esitazione.
Niente di strano, a prima vista. Sapete com’è disordinata, sapete che lascia la biancheria dappertutto, che stipa la toilette di cosmetici ecc, che non si rifà mai il letto; chiaramente gli anni hanno contribuito a sanare queste abitudini da sgualdrina, perché adesso la stanza si presentava pulita e ordinata, col letto rifatto e neanche un capo di biancheria in giro. Esaminai rapidamente il comò e non trovai niente di interessante; non c’era niente neanche all’interno o sul comodino. C’erano, notai, tre foto incorniciate sulle pareti, due viste del Lake District e, sopra il letto, una Madonna col Bambino. A quel punto, uscii sul pianerottolo per assicurarmi che non fosse rientrata: nessun rumore, solo il suono attutito di musica da ballo proveniente dalla radio in salotto. Tornai dentro e andai al grosso armadio scuro che stava contro la parete di fronte alla porta. Mentre mi avvicinavo deciso, mi vidi riflesso nel suo lungo specchio, ancora col maglione nero bagnato e il vecchio vestito grigio: che strana creatura furtiva sembravo, mentre mi muovevo in punta di piedi con le mie lunghe gambe in quella stanza semibuia, che ragno!
Mi arrestai davanti all’armadio, una mano sull’anta, e voltai la testa ancora una volta per ascoltare la casa, cinque, dieci, quindici secondi: nient’altro che la debole, lontana musica della radio. Aprii l’armadio — ed era lì, la prima cosa che vidi, anche se era spinta all’estremità della sbarra e quasi nascosta: la sua vecchia pelliccia sciupata.
Poi sentii sbattere la porta d’ingresso (per fortuna è una porta che è difficile chiudere silenziosamente) e allora scivolai via alla svelta, lasciando la stanza esattamente come l’avevo trovata; tornai in camera mia e, tremando letteralmente per l’emozione, mi misi alla finestra e cercai di rimanere calmo.
Restai lì parecchi minuti, il braccio sinistro premuto sul petto, con le dita aggrappate alla spalla ossuta e una «grassa» — ne avevo bisogno — fra le dita ancora tremanti dell’altra mano. A poco a poco, il tremore si fece meno violento e, mentre ciò avveniva, l’odore del maglione di lana bagnato mi salì di nuovo alle narici, e finalmente scossi la testa, mi liberai dell’ultima traccia di emozione e mi tolsi la giacca. La appesi dietro alla porta, poi mi levai il maglione puzzolente. Ma l’odore persisteva, e fu solo allora che lo riconobbi come gas.
Fu una lunga notte. Ancora non so come la superai, perché fu probabilmente la peggiore della mia vita. Malgrado altri fogli di carta da pacco fìssati sul petto, malgrado gli strati di vestiti e magliette e maglioni, l’odore di gas mi perseguitò fino alla mattina. Naturalmente avevo il diario, e fu solo questo, credo, a impedirmi di fare del male a me stesso, o a qualcun altro. Una nuova strategia delle creature del solaio: tenni la luce accesa tutta notte, naturalmente, e la lampadina crepitava verso di me come al solito, ma non vi prestai attenzione — finché il crepitio divenne improvvisamente più forte, come quella sera in Kitchener Street di cui ho parlato; stavolta, però, erano le voci che avevano preso il sopravvento e producevano una specie di canto che usciva dal bulbo e diceva: «uccidila uccidila uccidila uccidila UCCIDILA uccidila uccidila uccidila.» Allora mi irrigidii sulla sedia dove scrivevo e concentrai l’attenzione sulla lampadina; ma quando lo feci, il rumore diminuì immediatamente fino a essere un ronzio statico, e lo persi. Tornai dunque al lavoro, ma appena fui riassorbito dalla scrittura il crepitio si risolse ancora in quel terribile canto, e di nuovo mi arrestai, alzai la testa, e il canto si trasformò in una risata che svanì lentamente: e tutto ciò che rimase fu la lampadina difettosa di una casa con un impianto vecchio e un uomo disperato, tormentato da messaggi provenienti chissà da dove, dal solaio sopra di lui, dalla lampadina sulla sua testa o da qualche buco profondo nel segreto della sua mente malata. Oh, fu una brutta notte: che io possa non vederne mai, mai più una simile.
Verso l’alba il tormento diventò meno intenso, e io mi fermai, arrotolai una sigaretta, guardai le pagine del mio quaderno. Erano scribacchiate in fretta, sbavate, coperte di parole che non mi interessava leggere, adesso che quella notte era quasi finita. Qualcosa stava accadendo alla mia calligrafìa, si notavano un’evidente inclinazione e una fluidità; era davvero una scrittura e non solo gli appunti contorti di un uomo che aveva letto molto ma scritto poco. Era una scrittura fluente, da scrittore, e in altre circostanze, riflettei, avrei potuto contemplare queste parole con soddisfazione — con orgoglio, anche. Ma le circostanze della composizione non mi permettevano un simile compiacimento; prendevo coraggio solo dalla leggera sfumatura grigia dell’alba che si affacciava timidamente nel cielo orientale e dalla promessa di un certo sollievo da questi tormenti che recava con sé, almeno per le poche, brevi e fuggevoli ore del giorno. Da qualche parte in casa tirarono l’acqua di un gabinetto; i tubi rumoreggiarono e, nella mia immaginazione, vidi un’anima morta con un pigiama liso e sporco che emergeva da un bagno con gli occhi sonnolenti incrostati di muco giallastro, l’alito cattivo, e sbadigliando stupidamente tornava al suo lettino per rientrare nel dolce oblio del sonno; e in quel momento avrei dato una mano o un braccio — o un braccio e una gamba! — per essere un’anima morta con la testa vuota e la dolce possibilità del sonno davanti a me. Essere sveglio significa essere disponibile per il tormento, e questo è il significato più autenticamente compiuto della vita.
Oggi potrei tornare a Kitchener Street?, mi chiesi riprendendo ancora una volta la matita. Che cosa ci troverei? Mi darebbe pace, o sollievo, sostare davanti al numero 27, vedere delle tende sconosciute alla finestra in salotto? Magari la porta riverniciata di fresco e la lunetta sopra, col sole al tramonto, ripulita dalla polvere e dal grasso che vi si erano rappresi dopo l’arrivo di Hilda? Mi sarei fatto strada come un ragno nel vicolo sul retro, fermandomi vicino ai bidoni della spazzatura, e magari avrei osato aprire il cancello del nostro cortile e vedere il bucato di qualcun altro steso ad asciugare, la bicicletta di qualcun altro appoggiata al gabinetto, in cui magari l’acqua arrivava ancora all’orlo del water quando si tirava la catena, e a volte traboccava? Cosa avrei provato? Magari me ne sarei andato, avrei proseguito fino in fondo a Kitchener Street, sarei entrato di soppiatto al Dog and Beggar, e avrei sorseggiato una mezza pinta di mild vicino al fuoco. Lanciando occhiate di nascosto a Ernie Ratdiff, ormai ultracinquantenne, ma sempre con quell’aria da donnola, le mani veloci e sottili, i capelli unti e la sua maledetta astuzia — anche se lui non mi riconoscerebbe, no, non scorgerebbe in questa sporca rovina il timido ragazzino che andava a cercare suo padre quando era pronta la cena: no, non lo riconoscerebbe affatto, vedrebbe un uomo lento e triste, devastato dalla malattia mentale e con in tasca a malapena le monete per pagarsi il bicchiere più piccolo della birra più economica nel pub più schifoso di Londra!