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No, non tornerò a Kitchener Street: non oggi, non sono abbastanza forte. Quando starò meglio — quando avrò superato questo brutto momento —, allora tornerò a casa, tornerò al numero 27, e magari mi farà bene.

Metto giù la matita, attraverso la stanza e spengo la luce, non ne ho più bisogno. Mi distendo sul letto e guardo il soffitto: silenzio. Ben presto le tubazioni incominceranno a rumoreggiare, la radio verrà accesa, sentirò le persone da basso. Ma, per adesso, silenzio: un benedetto, aureo silenzio.

Ancora giù al fiume, oggi. Per qualche ragione che non mi sono curato di indagare, non voglio più sedere vicino al canale, anche se ciò potrebbe avere a che fare, adesso mi viene in mente, con la vista dei gasometri in direzione di Spleen Street. Nebbia, oggi, ma non umido come ieri, e l’odore di gas è quasi scomparso. Trovo un certo conforto nella vista di queste rachitiche strutture di pali nel fiume, verdastre dove l’acqua scorre, marrone scuro per il resto, macchiate di creosoto; da qui, se mi sforzo, riesco a sentire l’odore di creosoto. Per il resto, nell’aria c’è odore di fumo: lo vedo uscire dal sottile camino di una vecchia chiatta olandese un centinaio di metri più a valle, e circa a metà del fiume incomincia la nebbia, un velo gentile che limita la vista e mi permette di riesaminare senza distrazioni la breve visione della sua vecchia pelliccia nella camera da letto semibuia. Che ce l’abbia ancora — cosa devo pensare di questo? Sono calmo, adesso, posso esaminare queste cose con tranquillità. Un gabbiano si posa con uno strido su un palo e, da qualche parte dietro di me, una sirena suona: una fabbrica. Uno scolaro si ferma vicino alla mia panchina e cerca di persuadermi a dargli una sigaretta. «Dai, signore,» dice, «solo una.» Ma io scuoto la testa, non distolgo neanche gli occhi dai pali che emergono dal Tamigi grigio-verde e dal velo di nebbia. Si potrebbe pensare che la mia decisione fosse rafforzata da ciò che avevo visto in fondo all’armadio della signora Wilkinson. Perché non era così? Qualcosa confondeva la logica del tutto. Cos’era? Che le creature del solaio mi spingessero a ucciderla: era questo? Non erano sue creature? Forse no. Forse erano creature di tutti — o di nessuno. O forse uscivano, come a volte mi convincevo, da qualche buco profondo nel segreto della mia mente malata — e allora?

* * *

Terra, acqua, gas e canapa: questi sono gli elementi di Spider. Tornando dal fiume, sono andato direttamente in camera mia e ho tirato fuori la fune. L’ho messa dietro la grata del caminetto almeno dieci giorni fa. L’ho trovata vicino al canale un pomeriggio e ho capito subito che ne avrei avuto bisogno. Non è il tipo di fune spessa nei cui rotoli unti ero solito rannicchiarmi da bambino, là sulle barche: è una fune molto più sottile, una corda, si direbbe, tre fili resistenti di canapa color grigio scuro. Non è pulita; l’olio e la sporcizia del lungo servizio l’hanno annerita in alcuni punti, e inoltre adesso c’è la fuliggine del caminetto. È lunga circa quattro metri, sfrangiata a un’estremità e fermata in un nodo all’altra; il nodo è rinforzato da un anello di metallo. La prendo fra le dita; mi piace la sua superficie ruvida. La afferro con i pugni e la tendo: è una bella corda robusta, ancora utile. La avvolgo intorno al braccio e la appoggio sul letto. Siedo al tavolino, la sedia rivolta verso il letto, fumo una «magra» e guardo la fune. Un colpo alla porta: all’improvviso, lei è nella camera con me.

«Signor Cleg,» dice con quel suo tono — ha un fagotto sulle braccia — e poi vede la fune. Io sono ancora seduto. «Signor Cleg! Quella roba sporca, non sul letto!» grida. Stringendo il suo fardello con un braccio, afferra la fune e la butta sul pavimento, dove si disfa con un rumore attutito di canapa. Accarezza la coperta con la costa della mano grassa e poi mette giù il fagotto. In cima al mucchio c’è un ombrello, ben legato. «Signor Cleg, se non posso farla smettere di camminare sotto la pioggia, posso almeno darle un ombrello. Un ombrello. Ora, questa…» — alza un oggetto di gomma color arancio pallido a forma di sogliola e lo fa oscillare verso di me — «… è la sua boule dell’acqua calda. Può riempirla in cucina prima di andare a letto. Questo…» — prende un cappotto che sembra almeno di terza mano — «… è il suo cappotto invernale.» È grigio pallido, con un bel disegno a spina di pesce, che immediatamente mi dà dei problemi agli occhi per via di quelle sottili linee parallele a zig-zag. «E questa…» — brandisce una coperta blu lisa e con numerose bruciature di sigaretta — «… è la sua coperta di riserva.»

Io fissavo questa strana collezione perplesso e in silenzio. Cos’avevano in comune questi oggetti? Lei si era voltata e mi mostrava la schiena e il sedere; trafficava col mio letto, stava mettendo la coperta di riserva. Si guardò oltre la spalla. «Niente da dire, signor Cleg? Il gatto le ha mangiato la lingua?» (Che idea repellente.) Aveva capito, pensai a un tratto, a cosa mi serviva la fune? Improvvisa ansia di Spider. «Ecco,» disse, finendo il letto; poi, guardando per terra: «Posso portargliela via? È davvero troppo sporca per stare in una camera da letto.»

Subito allungai un braccio, la tirai a me e trattenni le spire annodate in grembo. «Almeno non la metta sul letto, per favore,» disse. «Credo che quello sia olio, e non riuscirò mai a tirarlo via.» Era in piedi in fondo al letto, adesso. Sembrava immensa, oggi, terribilmente immensa. «Niente da dire, signor Cleg?» Reclinò la testa di lato e incrociò le braccia sotto al seno. «Sono preoccupata per lei.»

Io mi ritrassi, aggrappandomi con forza alla fune. Come volevo fuggire dallo sguardo di quegli occhi, che penetravano in me, mi laceravano; stavo per essere annientato e non potevo scappare via: ero ipnotizzato come un topo davanti a un serpente. In alto, la lampadina emise uno scoppiettante crepitio di vita, anche se la luce non era accesa. La camera si fece più scura, i suoi occhi scintillarono verso di me. «Si ricordi,» disse — e la sua voce giunse come dalle profondità di un pozzo di pietra, echeggiarne, rimbombante e terribile —, «si ricordi che domani ha l’appuntamento col dottore.» BOOM boom boom boom — le parole continuarono a rimbombare nella camera anche dopo che fu uscita. Andai alla finestra e guardai il lampione, che si era appena acceso. Tremavo incontrollabilmente; la fune mi scivolò dalle dita e cadde sul pavimento con il solito rumore soffocato, e a poco a poco l’eco svanì. Ma, oh, pensai, se questa sarà una brutta notte, una notte cattiva, come farò a superarla?

Che Spider fu visto alle prime, pallide luci dell’alba! Che distrutta ombra di un’eco di una caricatura di uomo! Che guscio vuoto, che relitto, che miserabile! Ma viveva, viveva. Ero in piedi al mio tavolo, con le mani appoggiate sul piano e lo sguardo al cielo: la notte era passata, l’avevo superata. C’era silenzio; gli strilli erano cessati, il furore finito; io ero il fragile vascello sorpreso in mare aperto da una tempesta notturna, che all’alba entra faticosamente in una piccola insenatura o porto con l’albero di maestra spezzato e il timoniere legato alla barra, stremato dalla fatica e dal terrore. Un piccolo conforto, quello della luce del giorno, ma sempre un conforto. Il cartoncino scricchiolava mentre muovevo le membra, andavo verso il letto, mi distendevo sulla schiena e fissavo il soffitto macchiato dall’umidità che un’ora prima era stato una buia tela demoniaca di spirali e nodi infernali che strisciavano, sputavano ed emanavano sporcizia e violenza. Ma adesso la notte rifluiva, e l’alba cresceva e montava silenziosa: il mio Pacifico.