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Il naufrago Spider giacque sul suo letto con le gambe incrociate alle caviglie e guardò il fumo di una «magra» salire in un’esile colonna che si rompeva in circoli e svaniva. Pensava alla fune nel caminetto e sapeva che questa sua povera giga, questa giga infernale era quasi finita: «Basta,» mormorò nel silenzio, «basta, basta, basta.»

* * *

Il dottor McNaughten era nell’ufficio della signora Wilkinson quando lasciai la cucina dopo colazione. «Buon Dio, amico, cosa le è successo?» gridò, quando entrai. «Si sieda!» Sedetti. Mi scrutò aggrottando la fronte, poi andò alla porta e chiamò la signora Wilkinson gridando. «Ma quest’uomo ha preso le sue medicine?» disse, senza curarsi di abbassare la voce.

«Naturalmente no, dottore,» disse la signora Wilkinson con tono sommesso, allontanandolo dalla soglia in modo che non potessi seguire la loro conversazione. Pochi minuti dopo, il dottore tornò da me. «Dennis,» disse, «credo che lei abbia trascurato le sue medicine. Mi dica la verità: è così?»

Che importanza aveva, ormai? Una spallucciata, un sospiro dello stanco Spider. Il dottore aggrottò la fronte, poi andò alla finestra, dove rimase dandomi le spalle; teneva una mano nella tasca dei pantaloni, e con l’altra tamburellava sul davanzale. Silenzio; dopo qualche minuto, la porta si apre. È la signora Wilkinson. Va alla scrivania e ci versa sopra una dozzina circa di pastiglie multicolori; ha anche la mia fune, e mette anch’essa sulla scrivania. Io mi alzo in piedi con un involontario scatto di allarme: dov’è il mio quaderno? Il dottor McNaughten mi guarda scuotendo la testa. «Grazie, signora Wilkinson,» dice. Torna alla finestra, e di nuovo resta immobile volgendomi le spalle e guardando fuori. Finalmente, senza voltarsi, parla. «Sono quasi convinto che dovrei farla ricoverare,» dice, «ma voglio darle un’ultima possibilità.»

Quando tornai in camera mia, scoprii con grande sollievo che il mio quaderno era in salvo. Non dovevo tornare a Ganderhill; il dottor McNaughten aveva moltissime ragioni per questa decisione, e una di esse era che, prima di smettere di prendere le pastiglie, stavo facendo «progressi». In quale direzione, non lo disse.

* * *

Anche quando un uomo non ha niente che possa dire suo, trova dei modi per acquisire delle proprietà, poi ne scova di ulteriori per nascondere le sue proprietà agli altri. In un «reparto duro» ci si legava un capo di uno spago a un passante della cintura, l’altro all’orlo di una calza, fissandola così al bordo dei pantaloni. Lì dentro si tenevano il tabacco, gli strumenti per cucire, matita e carta, altri pezzi di spago — qualsiasi cosa fosse utile o di valore. I degenti si affezionavano alle loro calze: la vita era ridotta all’osso, in un «reparto duro», e questo era un modo per rimpolparla, per sentirsi qualcosa di più di una semplice creatura dell’istituto. I ricoverati lottavano duramente per conservare le proprie calze allorché gli infermieri decidevano di confiscarle. Quando ciò avveniva, oltre alla calza, si perdevano i vestiti e si veniva gettati in una camera di sicurezza con un camicione di stoffa antistrappo, o si era incamiciati, ammanettati e legati in maniera da non potersi rompere le nocche tirando pugni al muro.

Durante gli ultimi anni a Ganderhill avevo una camera in un buon reparto al Blocco F e godevo di tutti i privilegi che l’istituto poteva darmi. Ma nei primi tempi di solito stavo fra gli uomini tristi, e spesso in una camera di sicurezza con la camicia di forza. Ricordo la prima volta che accadde: un paio di infermieri avevano incominciato a parlare di me mentre sedevo a fumare dall’altra parte della sala di soggiorno. Guardando nella mia direzione, un infermiere disse all’altro che ero lì perché avevo assassinato mia madre. Naturalmente io lo smentii; dissi loro che non ero stato io, ma mio padre, a ucciderla. Loro risero, e per un po’ parlarono d’altro. Ma dopo qualche minuto ripresero a discutere di me, e di nuovo fu detto che avevo ammazzato mia madre. Negai ancora; loro mi dissero di non arrabbiarmi, di non farmi venire una «crisi».

Era proprio bella. Ricordo che incominciai a dondolare avanti e indietro sulla panca (una cosa incontrollabile), e le dita mi tremavano violentemente. Spider faceva disperati movimenti di fuga, avanti e indietro, in un senso e poi nell’altro, così mi pareva, cercando con angoscia crescente una nicchia o una fessura per infilarvisi. Rapidamente la sala di soggiorno si fece scura; i due infermieri sedevano guardandomi con intensità animalesca mentre le mie oscillazioni diventavano sempre più violente. Ci furono rumori e grida, e mi bloccarono a terra mentre la luce andava e veniva. Poi ci fu lo scatto stranamente familiare delle manette e, con una sensazione di crescente costrizione mentre gli stringevano i legacci, il frenetico Spider vide finalmente il suo buco e vi si infilò e basta, finché non si ritrovò in una camera di sicurezza, legato come un cappone di Natale e con un unico pensiero che girava girava girava nella sua testa ed era: suo padre, suo padre, suo padre suo padre suo padre…

Non è facile ripensare a quei tempi adesso (forse il fatto che possa rifletterci su è un segno dei miei cosiddetti «progressi»), ma molto del lavoro di quei primi anni a Ganderhill fu imparare a sopportare simili provocazioni, cosa che alla fine feci: venne un momento in cui potevo ascoltarli mentre tentavano di suscitare in me reazioni violente, mentre mormoravano tra loro qualcosa a proposito di mia madre; invece di agitarsi — incominciando a dondolare, a tremare e a correre come un granchio in cerca di un sasso —, invece di tutto questo, Spider sviluppò strutture che potevano reggere l’assalto — le ricostruiva infaticabile, le saggiava con costante diligenza — e così imparò ad affrontare le provocazioni e, dal momento in cui iniziò a farlo, queste diminuirono e fu lasciato in pace. La vita a Ganderhill prese allora a migliorare.

Sono seduto vicino al fiume, l’ombrello chiuso appoggiato alla panchina, di fianco a me. Una giornata coperta e molto ventosa. Sono intontito dai medicinali, forse anche questo mi aiuta a pensare ai primi anni a Ganderhill senza agitarmi. Gli altri pazienti — John Giles, Derek Shadwell — non mi avrebbero mai fatto quello che rischiavo dagli infermieri: tra di noi non avevamo ragioni per dubitare o per mentire. Mi viene in mente, però, che una funzione delle provocazioni, deliberate o meno, era di costringermi ad affrontare quanto era accaduto a Kitchener Street: per questo, capite, quando lo affrontai, le provocazioni cessarono, anche se ciò non avvenne rapidamente, no, ci vollero anni; c’erano frequenti ricadute che vedevano di nuovo Spider rannicchiato come un bambino sotto una coperta, o addormentato su una panchina con la testa poggiata su una scarpa. Ma ciò che avvenne durante quel periodo fu l’ulteriore sviluppo del sistema a due teste: là di dietro, dove viveva Spider, c’era il triste e veritiero racconto di Kitchener Street (quello che vi sto narrando adesso). E nel reparto, nella sala di soggiorno, a Ganderhill, c’era il paziente Dennis Cleg, che si muoveva imperturbato, una maschera, uno spettro, un pupazzo, tra false voci, accuse scandalose e provocazioni assurde — perché Spider era altrove! (Fino a quando, cioè, il dottor Austin Marshall andò in pensione e arrivò un nuovo direttore sanitario, e quest’uomo riuscì, nel giro di due pomeriggi, a minare tutto il mio lavoro; ma di lui parlerò ancora al momento opportuno.)

Brutti anni, quindi, i primi anni: anni di persecuzioni. I mesi iniziali furono i peggiori, sotto questo aspetto, prima che mi adattassi ai loro modi. (È molto più difficile parlare di quei giorni: vedete come siedo impettito sulla panchina, adesso, fissando i pali nel fiume mentre un gabbiano passa stridendo nel vento, e come sono bianche le nocche delle mie mani ossute, strette intorno al manico dell’ombrello.) Perché mi avrebbero reso una loro creatura, se non avessi trovato il modo di resistere. Immaginatemi, dunque, in una fredda camera piastrellata davanti all’amministrazione del reparto, lavato e disinfettato, nudo come un verme e pieno di brividi: un lungo ragazzo magro, con la pelle foruncolosa, bianca come il latte, e il terrore negli occhi. Mi hanno portato via i vestiti e stanno per darmi quelli grigi dell’istituto. Il mio vecchio io, il ragazzo di Kitchener Street, lo Spider di Londra, è stato eliminato; prima che io vesta l’uniforme di pazzo ci sono questi pochi minuti, che passo nudo nella triste stanza piastrellata, durante i quali in realtà non sono nulla, né una cosa né l’altra, ed ecco qualcosa di strano: in quei minuti di puro nulla rabbrividente, sono colto da una sensazione così intensa che mi fa ridere forte; e l’infermiere si volta dalla scrivania dove si sta occupando dei miei pochi e poveri averi e aggrotta la fronte verso di me, mentre io saltello da un piede all’altro e tento di controllare ondate di gioia inesplicabile — subito estinta quando tento di entrare in una maglietta troppo piccola e in pantaloni troppo grandi e in un paio di scarpe da manicomio con le suole spesse, a cui sono state tolte le stringhe. Mi ha preso la matita e le poche monete che possedevo e le ha chiuse in una busta con il mio nome e la data scritti sul davanti, dicendomi che mi saranno restituite quando uscirò. Così, entrato in quella stanza come Spider di Londra, ne uscii come pazzo, irriconoscibile anche a me stesso; e il terrore, momentaneamente cancellato da quel breve, strano scoppio di ilarità, allora tornò; l’unica cosa di cui fui consapevole era il contatto di materiali estranei con la mia pelle e gli odori ignoti nelle narici. Adesso avevo paura, una paura terribile, più forte di quanto mi fosse mai accaduto prima, e la sola cosa che volevo era tornare nella mia stanza sopra la cucina al numero 27. Quella strana risata, però… Adesso credo che fosse di sollievo.