Выбрать главу

John Giles fu il primo paziente che incontrai al mio arrivo, John, con le sue grandi spalle e le sopracciglia cespugliose. Entrò a Ganderhill il mio stesso giorno: quando lo vidi per la prima volta stava guardando un muro vicino all’ingresso del reparto e parlava da solo, rapidamente e in tono molto animato. Dietro di lui, nel reparto, un piccoletto pelato sedeva sul pavimento gemendo dolcemente, mentre continuava a tirarsi il colletto della camicia; alle sue spalle, immobile come una statua, un uomo si guardava il palmo della mano aperta e le dita distese. Devo essermi fermato, lì sulla soglia, perché ricordo l’infermiere che mormorava: «Coraggio, figliolo, andiamo.»

Andammo. Nel reparto circolavano pochi pazienti; la maggior parte era rinchiusa in celle con le sbarre alle porte e le pareti di cemento armato. I «rinchiusi» indossavano camicioni e dormivano per terra con le ginocchia sollevate fino al mento. Un uomo, gli occhi spiritati e i capelli ritti sulla testa in ciuffi bagnati, si precipitò contro la porta al mio passaggio e, aggrappandosi alle sbarre, schiamazzò verso di me finché l’infermiere gli andò vicino con una mano alzata, e lui si ritirò con un mugolio di spavento. A metà del reparto, la porta di una cella vuota venne aperta facendola scorrere su binari di metallo. «Eccoci, figliolo,» disse l’infermiere. «Non ti rinchiuderò a chiave, per ora.» Rimasi immobile, guardando verso l’interno: una piccola finestrella con le sbarre, alta sulla parete, un gabinetto di cemento senza coperchio e senza sedile, e un letto dello stesso materiale. «Se non ti metti nei guai, figliolo,» disse, «presto ti porteremo da basso.» Era alto come me, quell’uomo, e più tardi seppi che si chiamava «signor Thomas». Si voltò e ripercorse il reparto al contrario, guardandosi intorno mentre con una mano batteva una grossa chiave nel palmo dell’altra. Immaginatemi: seduto sul bordo del letto di cemento coi gomiti sulle ginocchia, le mani che pendevano abbandonate fra le gambe e la testa china. Nella gola avvertivo una sensazione di caldo soffocante; fissai ammiccando il pavimento e vidi due o tre lacrime cadermi fra i piedi. Un’ombra calò nella cella; alzai gli occhi sussultando: era John Giles, il gigante. «Hai da fumare?» disse. Io scossi la testa; lui si allontanò.

Consumai la cena nella mia cella, da un piatto di carta con un cucchiaio di legno; poco dopo, mi furono dati un paio di coperte e tre pezzi di carta igienica. Poi la porta venne chiusa con un gran clang rimbombante e le luci furono spente, tutte tranne una o due che diffondevano una tenue luminosità al centro del corridoio, sufficiente perché vedessi l’uomo nella cella di fronte. Mi distesi sul letto e, per la prima volta, imparai a usare una scarpa come cuscino. I rumori del reparto cambiarono; gli uomini che avevo visto rannicchiati con le ginocchia sollevate fino al mento sembrarono svegliarsi col buio, e si alzò un clamore così pietoso di gemiti, grida e lamenti che mi misi le mani sulle orecchie e rimasi immobile sul cemento, rigido, con gli occhi spalancati e fìssi al soffitto, dove la luce del corridoio proiettava sull’intonaco una rete di sbarre stranamente allungata. Neanche così riuscivo a sfuggire alle voci e, nel giro di pochi minuti, mi ritrovai a passeggiare avanti e indietro nella cella, sempre stringendomi la testa e borbottando febbrilmente per cercare di soverchiare con la mia voce l’insopportabile angoscia delle loro. Poi arrivò un infermiere alla mia porta. «Mettiti giù, figliolo,» mormorò, «non lasciarti turbare.» Non dissi nulla: rimasi fermo nella cella e fissai l’uomo. Dopo qualche istante, lui ripeté: «Mettiti giù, figliolo», e io ubbidii. Quindi se ne andò, e lo sentii zittire i gemiti e i lamenti, finché il reparto non fu quasi silenzioso. Rimasi sdraiato per quella che mi sembrò un’eternità, guardando il reticolo di ombre disegnato sul soffitto; poi incominciai a vedere le ragnatele sotto il tetto del casotto di mio padre; ne ottenni un certo conforto, perché riuscii ad addormentarmi.

I giorni successivi passarono con cicli alterni di monotonia e pandemonio. Mi lasciavo facilmente turbare e mettere in agitazione — cosa tutt’altro che sorprendente —, e ben presto persi la camicia e i pantaloni e fui costretto in un camicione antistrappo. Oh, questo fu il punto più basso; rabbrividisco, adesso, pensando a ciò che devo aver passato per fare quanto feci. Tale era la mia disperazione, il mio dolore, la totale devastazione e miseria del mio isolamento che buttai via il camicione e usai le mie feci per scrivere il mio nome sul muro — il mio vero nome, voglio dire, cioè «Spider», impiastricciato e spantegato in umide macchie marrone sull’intonaco. E adesso immaginatemi accovacciato nudo, che sorrido alla parete dove il mio nome cola merda da lettere alte mezzo metro, e per pochi brevi istanti sono una creatura mia, non loro, non loro. Ma poi guardate come vengo sospinto poco gentilmente verso il bagno, mentre la mia cella è ripulita con acqua calda e candeggina, confermato, ai loro occhi, come pazzo da questa azione sporca, malgrado ai miei occhi fosse esattamente il contrario!

Brutti giorni, quindi, anche se col tempo riuscii a elaborare, come dicevo, il sistema delle due teste e a offrir loro il pazzo, mentre Spider se ne stava per conto suo. Questo era dovuto in parte al tabacco: a Ganderhill, il tabacco era uno di quei rozzi strumenti che gli uomini usano per dare una forma alle loro giornate. Veniva distribuito dopo colazione e dopo cena, prelevato da una scatola all’ingresso del reparto. Presto imparai a unirmi agli altri quando facevano la fila, anche se non era tanto il tabacco che procurava piacere: la scarsità, la modestia della distribuzione mattutina rendeva impazienti di quella serale (avendolo fumato tutto entro mezzogiorno), così come la fine della dose serale faceva aspettare avidamente nelle lunghe ore insonni della notte l’arrivo del mattino. Dunque il piacere stava tutto nell’attesa, nella pregustazione: ed è in questo modo che ci rendevano delle loro creature, perché se ti mettevi nei guai perdevi il diritto al tabacco, e il dolce ritmo di aspettativa e soddisfazione scompariva dalla giornata — e, allora, come diventava triste e cupa quella giornata! Fu anche questo che mi spinse a creare il sistema a due teste, perché se sapevo offrir loro un buon pazzo mi davano il tabacco due volte al giorno, e io potevo conservarlo o fumarlo a mio piacimento. Non che il tabacco potesse fare tutto: i degenti continuavano a battere la testa contro il muro fino a sanguinare, si strappavano i punti, si facevano buchi nella carne con le sigarette, ficcavano i loro camicioni nei gabinetti e poi facevano scorrere l’acqua finché non inondava la cella e scorreva nel corridoio. Perché questo era un «reparto duro» e ci trovavamo lì perché avevamo fallito; tuttavia imparai a dar loro un buon pazzo, e fu a questo punto che decisi che ero pronto per vedere il dottor Austin Marshall.