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Quand’era di un certo umore — e bere non faceva che peggiorare le cose, bere annientava le sue remore —, i pasti erano un inferno. Io sedevo al tavolo della cucina guardando il soffitto, dove una lampadina senza paralume pendeva all’estremità di un filo marrone intrecciato. Tendevo sempre a fuggire nelle fantasticherie in quella piccola e misera cucina, con le sue pentole tintinnanti e il rubinetto che perdeva e l’onnipresente odore di cavolo bollito — e le fughe rendevano tollerabili quei pasti spaventosi. Fuori, il crepuscolo diventava notte e, dai lontani bastioni della ferrovia, giungeva lo stridore di un fischio quando un treno locale passava sbuffando. Mia madre mi metteva davanti un piatto di patate lesse, cavolo bollito e collo di montone in umido, con la carne che si staccava dall’osso in pezzi grigi e filamentosi. C’era una terribile tensione nella stanza mentre prendevo coltello e forchetta. Sapevo che mio padre mi stava guardando, e ciò peggiorava le cose, perché io ero un ragazzo goffo anche nei momenti migliori, poco capace di controllare quei miei arti lunghi e dinoccolati. Mi ficcavo in bocca un grosso pezzo di patata, ma era troppo caldo e dovevo risputarlo nel piatto. «Per Dio!» sibilava lui fra i denti serrati. Mia madre lo guardava, con la forchetta posata sopra una patata che galleggiava come un pezzo di legno in una pozza di sugo unto e denso. «Non arrabbiarti,» mormorava, «non è colpa del ragazzo.»

Il pasto procedeva in un doloroso silenzio. Non si sentivano più rumori di treni dai bastioni della ferrovia, e niente si muoveva in Kitchener Street. Le posate sbattevano sulla mediocre porcellana mentre mangiavamo il nostro collo di montone e il rubinetto sgocciolava nel lavandino con un plop sempre uguale. In alto, la lampadina continuava a spandere nella stanza una fioca luce giallastra e io, dopo aver divorato il mio cibo, sedevo di nuovo guardando il soffitto con le labbra che si muovevano leggermente; smettevo solo per togliere qualche pezzettino di montone che mi si era infilato fra i denti. «Metti su il bollitore, Spider,» diceva mia madre, e io mi alzavo. Nel farlo, urtavo con un ginocchio il bordo del tavolo e lo facevo oscillare violentemente, sì che il piatto di mio padre si muoveva di parecchi centimetri verso sinistra. Lo sentivo irrigidirsi, allora, sentivo la sua mano che stringeva la forchetta, sui rebbi della quale aveva appena collocato una tremolante porzione di cavolo pallido e molle; tuttavia pietosamente non diceva nulla. Accendevo il gas. Finalmente lui terminava di mangiare, lasciava il coltello e la forchetta di traverso sul piatto, appoggiava le mani all’orlo del tavolo, mentre i gomiti stavano all’infuori ad angolo acuto, e si preparava ad alzarsi. «Torni al pub, naturalmente,» diceva mia madre, ancora al lavoro sulla sua ultima patata che aveva tagliato in molti piccoli pezzi, senza alzare gli occhi verso la faccia di mio padre.

Io gli lanciavo una rapida occhiata spaventata e, dal movimento della sua mascella, capivo quello che pensava di noi, del suo allampanato, inutile figlio e dei muti rimproveri di sua moglie, che stava lì seduta a tagliare e infilzare pezzetti di patata rifiutandosi di guardarlo negli occhi. Prendeva berretto e giacca dal gancio fissato alla porta e usciva senza dire una parola. Il bollitore si metteva a fischiare. «Facciamoci una bella tazza di tè, Spider,» diceva mia madre, alzandosi dalla sua sedia e strofinandosi la guancia mentre incominciava a raccogliere i piatti.

Più tardi, salivo in camera mia. Credo di dovervi parlare di quella stanza perché gran parte di tutto questo si basa su quello che ho visto e sentito e perfino annusato da lassù. Era sul retro della casa, in cima alle scale, e vedevo il cortile e, più oltre, il vicolo. Era una stanza piccola, e probabilmente la più umida della casa: c’era una grossa macchia sul muro di fronte al mio letto, dove la tappezzeria si era staccata e l’intonaco sottostante aveva letteralmente incominciato a «eruttare» — c’erano grumi verdastri di gesso umido che si gonfiavano dalla parete come bubboni o cancri e al tocco si mutavano in polvere. Mia madre tormentava continuamente mio padre perché facesse qualcosa, e malgrado una volta lui avesse rintonacato la parete, nel giro di un mese erano ricomparsi, poiché il problema erano i tubi che perdevano e la calce marcia fra i mattoni, tutte cose che mia madre pensava che lui sapesse sistemare, ma che mio padre non sistemò mai. Di notte io giacevo sveglio, e alla luce della luna che entrava nella stanza guardavo quei foruncoli e quei noduli che nella mia immaginazione infantile diventavano i gozzi e le verruche di qualche terribile strega gobba con un’impressionante malattia della pelle, uno spirito dannato per i suoi peccati contro gli uomini, che doveva essere intrappolato, tormentato nel cattivo intonaco di un vecchio muro di periferia. A volte, la strega lasciava il muro e penetrava nei miei incubi (ero pieno di incubi, da ragazzo), e allora, quando mi svegliavo terrorizzato, la vedevo sogghignare nell’angolo della stanza, con la testa avvolta nelle tenebre e gli occhi scintillanti in mezzo a quell’orribile pelle butterata, mentre la puzza del suo alito appestava l’aria; allora mi rizzavo a sedere nel letto, gridando, e solo quando mia madre veniva e accendeva la luce lei faceva ritorno al suo intonaco, ma io dovevo lasciare accesa la lampadina per il resto della notte.

Per quanto riguarda la scuola, non ero mai felice lì e cercavo di evitarla il più possibile. Non avevo amici, non ne volevo, non mi piaceva nessuno e, nel corso degli anni, gli altri avevano imparato a lasciarmi solo. Rabbrividisco nel pensare a quei giorni, anche adesso: c’erano lunghe file di banchi in una grande classe col soffitto alto come quello di un granaio e i pavimenti di legno, e in ogni banco sedeva un bambino annoiato con una matita e un quaderno. Io ero in fondo, più vicino alle finestre, che erano alte sulla parete, sicché non riuscivo a guardare fuori per sfuggire al tedio; attraverso quei vetri entrava la luce del giorno, e in essa c’erano continue e dense ondate e mulinelli di polvere. Per me, l’effetto della polvere danzante nella luce del sole è sempre stato soporifero, specialmente se dalla cima della classe arrivava la voce stanca, triste e monotona di un insegnante disamorato, con un vestito vecchio e delle scarpe di cuoio, che passeggiava avanti e indietro di fronte alla lavagna — un mondo distante, a polverosi miliardi di anni dal mio —, interrompendosi per scrivere una parola o dei numeri, col gesso che strideva sulla lavagna con un fischio terribile che faceva rabbrividire gli studenti, e la polvere volteggiava mentre loro strofinavano i piedi sul pavimento e il vostro Spider andava alla deriva sempre più lontano, sempre più immerso in zone della propria mente dove nessuno poteva seguirlo. Raramente venivo chiamato per rispondere a una domanda; altri ragazzi e ragazze erano più bravi di me, bambini sicuri e intelligenti che potevano alzarsi elegantemente e dire al maestro quello che voleva sentire. Questi allievi sedevano nelle prime file della classe, più vicini alla lavagna; qui dietro, nei «paesi bassi», sedevano i bambini «lenti», un ragazzino grasso di nome Ivor Jones che era ancora meno popolare di me e veniva fatto piangere ogni giorno, regolarmente, nel cortile, e una ragazzina molto disordinata di nome Wendy Wodehouse — il cui naso colava in continuazione e il cui vestito era sempre sporco —, che puzzava e che aveva una tale fame di affetto che si toglieva le mutande dietro ai bagni se glielo si chiedeva, e si diceva che facesse anche altre cose. Questi erano i miei vicini più prossimi in fondo alla classe, Ivor Jones e Wendy Wodehouse, ma non c’era nessuna possibilità di alleanza fra noi, anzi ci odiavamo più profondamente di quanto gli altri bambini odiassero noi, perché ci offrivamo l’un l’altro un’immagine del nostro patetico isolamento. Dubito che abbiano sentito la mia mancanza quando smisi di andare a scuola; ci sarà stata una lunga fila regolare di «Assente» sul registro e un compito in meno da correggere. Nessuno se ne preoccupò.