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Sì, quello era il lavoro per me. Ah, Dio buono, ricominciano? Sono ancora loro, con le voci che crepitano contro di me attraverso la lampadina? Penso che non riuscirei a superare un’altra notte così. Mi guardo le dita — mi sembrano così lontane da me: dapprima credo di vedere una specie di granchio posato sulla pagina aperta, un granchio giallo con le chele solide, una creatura senza alcun rapporto con me. Seguo il mio braccio fino alla spalla, ho bisogno di farlo per verificare che quella roba è parte di me, o almeno è connessa a questo insieme, a questa armatura male assemblata e scompigliata di cartilagine, pelle e ossa. Perché sono quasi vuoto ormai, il cattivo sapore che ho in bocca lo dimostra, e naturalmente anche l’odore di gas — e mi chiedo (questi sono i miei pensieri notturni) cosa troveranno quando mi apriranno dopo la morte (se non sono già morto). Una mostruosità anatomica, di sicuro: il mio piccolo intestino è strettamente attorcigliato alla parte bassa della colonna vertebrale e sale in una stretta spirale, allargandosi considerevolmente nel colon a metà del percorso e svettando verso l’alto della schiena come un boa constrictor; il retto mi attraversa il cranio e l’ano si trova in cima alla testa, dove tra le ossa che si uniscono alla sommità si è formata un’apertura, che io tocco continuamente con orrore e sorpresa, una sorta di matura fontanella escretoria (i miei capelli sarebbero sporchi e puzzolenti, se non fosse per la benedetta pioggia che ogni giorno mi ripulisce). Da quando è avvenuto questo cambiamento (una sera tardi, la settimana scorsa) ho cercato di non mangiare, perché il movimento della materia negli intestini è diventato dolorosamente intenso per me: una serie di spasmi sussultanti come se una specie di verme mi strisciasse intorno alla spina dorsale. Altri organi sono stati compressi contro lo scheletro in maniera da creare un vuoto, uno spazio nel tronco, e non ho capito perché sia accaduto questo. Uno dei miei polmoni è scomparso; c’è un verme nell’altro, ma per fortuna mi è ancora possibile fumare. Un solo tubo sottile pesca l’acqua dal mio stomaco (appiattito e schiacciato contro la cassa toracica), prima di scendere nel vuoto e collegarsi alla cosa fra le mie gambe, che a malapena assomiglia a un organo maschile adulto. C’è della materia che marcisce lentamente dentro di me, i resti putrefatti degli organi di cui non ho più bisogno; poiché i miasmi derivanti da questo processo hanno incominciato a filtrare dai pori della pelle (la mia pelle, il mio guscio, la mia conchiglia, la mia apparenza!), adesso ho avvolto il torace e le membra in giornali e cartoni fissati con spago, nastro adesivo, elastici, qualsiasi cosa sia riuscito a rubare nella casa. Tutto questo, tutto questo posso sopportarlo: ciò che mi ossessiona, adesso, è il pensiero che il mio corpo venga preparato per qualcosa, che mi stiano svuotando internamente per fare spazio a qualcos’altro — e nel momento stesso in cui scrivo queste parole e le sottolineo con un tratto incerto, un forte scroscio di risa arriva improvviso dalla lampadina, e dal solaio proviene una successione di passi che scuote le pareti e fa oscillare il bulbo appeso al cavo, e io resto seduto qui terrorizzato, aggrappandomi al tavolo con entrambe le mani mentre la lampadina oscillante getta nella stanza blocchi di luce e ombra che si agitano selvaggiamente.

Il rumore si riduce a un sussurro e a uno scricchiolio, e io mi alzo dal tavolo: devo lasciare la stanza, fosse solo per cinque minuti. Mi dirigo alla porta, e c’è un terribile ululato da sopra quando metto la mano sulla maniglia e la ruoto: ma la loro rabbia posso sopportarla, almeno per un breve periodo. Via, lungo il pianerottolo buio, verso il bagno, dove resto in piedi al gabinetto e, con dita tremanti, mi sbottono i pantaloni. Un piccolo apparato a forma di tubo, qualcosa proveniente dalla cassetta degli attrezzi di un idraulico, sbuca fuori e incomincia a orinare nella tazza minuscoli ragni neri, che si raggrinzano in puntolini e galleggiano sull’acqua. Sembra che ne sia infestato; sembra che dia alloggio a una colonia di ragni; sembra che io sia una rete per le uova.

Di nuovo nella mia camera; resto in piedi vicino al tavolo appoggiandomi sulle mani e guardo gli alberi spogli del parco sottostante. Illuminati fiocamente dalla luce del lampione, i loro esili rami formano un pallido intreccio contro il buio. Il cielo notturno è nuvoloso, non c’è luna. Niente si muove là fuori. Mi lascio cadere con rumore di giornali e cartone sulla sedia e prendo in mano la matita. Pensavo che non avrei superato un’altra notte così; in questo — come in tutto il resto — mi sbaglio, mi illudo con l’idea di essere libero, di avere il controllo, di poter agire. Non è così. Sono una loro creatura.

Questo è il lavoro per me, avevo pensato, guardando gli uomini negli orti. Dopo numerose richieste, ebbi la mia occasione e non li delusi. Ormai avevo passato quasi dieci anni a Ganderhill ed ero una figura ben nota. Avevo una stanza nel Blocco F e qualche legittima proprietà (qualcuna anche illecita, nascosta in qualche buco). Ero a mio agio, avevo la mia nicchia; ero conosciuto come un tipo solitario, benché coltivassi una specie di amicizia con Derek Shadwell, un nigeriano che, come me, era stato ingiustamente accusato di aver ucciso sua madre; Derek e io giocavamo a biliardo insieme nella sala di soggiorno tutte le sere. Ero in buoni rapporti con gli infermieri e venivo regolarmente salutato sulla terrazza dal dottor Austin Marshall. Chiedere un posto in una squadra di lavoro degli orti fu in un certo senso l’apice della mia carriera a Ganderhill; ero sicuro che, applicando ciò che mio padre mi aveva insegnato da ragazzo, sarei riuscito a fare tutto quello che ci si aspettava da me.

All’estremità orientale di una delle terrazze, una serie di scalini di pietra scendeva fino a un appezzamento di terreno delle dimensioni all’inarca di un campo da football, chiuso su un lato da una parte del muto di cinta, all’ombra del quale si trovava un vecchio olmo. Perpendicolari al muro, sul lato sud, altri gradini scendevano verso il campo di cricket, mentre in direzione nord c’era una ripida salita che attraversava una zona incolta di cespugli e alberi, fino alle terrazze più alte. Questo pezzo di terra aveva un aspetto derelitto e abbandonato, e un tempo era stato un giardinetto per il tè, perché alcuni elementi di un antiquato arredamento da giardino — un paio di sedie di vimini, un tavolino di ferro battuto — restavano a marcire e ad arrugginire sotto l’olmo. Altrove crescevano rigogliosi ciuffi d’erbacce e arbusti selvatici; poiché era ottobre, le foglie morte stavano ammonticchiate contro il muro in strisce umide e muschiose, in cui si erano sviluppate colonie di funghi maculati. Vicino al muro, ai piedi della salita alberata, c’era un mucchio disordinato di legni e rami secchi. La prima mattina di lavoro negli orti fui messo a ripulire questo terreno per la semina di primavera. Avevo una carriola e un forcone; c’erano vanghe e zappe nel casotto, per quando ne avessi avuto bisogno.

Mi misi al lavoro. Ero più giovane, allora: ero forte e potevo trasportare con la carriola ceppi pesanti, portarli fino ai gradini e trascinarli sul mucchio dietro al casotto. Era un punto ventoso e, benché il lavoro mi riscaldasse, tenni addosso la giacca con il bavero alzato. Mi avevano fornito dei pantaloni di velluto giallo, stivali neri e un maglione verde. Mi ci volle una giornata per togliere i rami e attaccare con le foglie secche; il lavoro mi stancava, ma mi metteva anche di buonumore, e quando mi fermai brevemente per fumare una sigaretta, mi appoggiai al forcone e guardai il panorama, mi sentii in pace. Prima avevo avuto un lavoro nel laboratorio di Ganderhill, stavo di fianco a Derek Shadwell a martellare chiodi tutto il giorno; lì c’era solo una piccola finestra con le sbarre che dava su un muro, niente luce, tranne quella che proveniva da un neon polveroso e crepitante.