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Continuai con le foglie, spingendo la carriola sulla salita e lungo la terrazza fino al mucchio del compost, molto più grande di quello di mio padre, perché raccoglieva i rifiuti organici dell’intero istituto. Nel corso di questi viaggi con la carriola, passavo vicino ai compagni della squadra, che dicevano: «Tutto bene, Dennis?» oppure: «Non esagerare, Dennis», e io rispondevo: «Tutto bene, Jimmy» o cose del genere. Eliminati i rami e le foglie, mi misi all’opera per tagliare le erbacce e, quando ebbi finito, tolsi le radici con la zappa. Fu il terzo o il quarto pomeriggio, dopo aver rovesciato un carico di erbacce e di radici sul compost, mentre spingevo la carriola vuota lungo il vialetto verso il casotto, che scorsi una figurina con il cappotto e la sciarpa neri in cima alle scale, di spalle; appena la vidi, scese gli scalini.

Mi bloccai di colpo e lasciai i manici della carriola. Non mi ero aspettato di vederla, dopo tanto tempo, dopo essere rimasto deluso molte volte. Corsi dietro al casotto, fino in cima alla scala e guardai giù nel giardinetto del tè. Era immerso nell’ombra, perché erano passate le cinque e il sole era basso nel cielo. Restai alla sommità della scala — ai lati avevo due colonnine quadrate di mattoni con una palla di pietra in cima — e con gli occhi passai in rassegna la zona. Là, vicino al cumulo disordinato di rami e legna nell’angolo più lontano, sicuramente vidi per un attimo una figura che scivolava nell’oscurità! Scesi velocemente i gradini e corsi nel campo; raggiunto il muro, guardai la salita alberata che arrivava fino alle terrazze più alte. L’avevo vista davvero? M’inerpicai lungo la salita, spezzando rami e ramoscelli secchi con gli stivali. A metà strada, mi fermai e mi guardai intorno ansioso: un profondo silenzio regnava fra gli alberi, ed era ormai troppo scuro per distinguere qualcosa. Per parecchi minuti, rimasi là, senza fare alcun rumore o movimento; poi tornai giù nel campo, che sembrava più desolato che mai mentre il buio scendeva rapidamente. In qualche modo la mia improvvisa eccitazione si placò e fu sostituita da un vago senso di attesa, dall’impressione che qualcosa di importante si fosse appena messo in moto. Riattraversai il campo e risalii i gradini, raccogliendo gli attrezzi, che rimisi a posto nel casotto, prima di tornare al Blocco F con gli altri uomini.

Ah, lei mi tormentava, come loro mi tormentano adesso. Sentiteli! Sicuramente devo essere dannato e già all’inferno per sopportare una cosa del genere, sicuramente devo essere già morto, morto e sepolto, e questo mio corpo vestito dev’essere animato solo da qualche strano spirito infernale, per tollerare tutto questo! Sì, lei mi tormentava: nei mesi e negli anni che seguirono, innumerevoli volte la scorsi mentre fuggiva, mi stuzzicava, come ho detto: quella figurina magra con cappotto e sciarpa, che stringeva la borsetta e stava, ricordo, all’ombra dell’olmo vicino al muro, in un pomeriggio d’estate, con la testa girata da un’altra parte, e io in ginocchio in un campo di cavoli o di insalata o di cipollotti lasciavo cadere la zappa, mi alzavo e, un momento dopo, saltavo le file di verdura (sempre pensando, nella mia pazzia: questa, questa è la volta buona) — e trovavo solo un ingannevole gioco di luce e di ombre creato dal sole che filtrava attraverso la coltre di foglie. Ci fu un’estate in cui la sua presenza fu particolarmente vivida: la vedevo quasi ogni giorno e la udii perfino pronunciare il mio nome mentre lavoravo da solo negli orti; la sentii sussurrare: «Spider! Spider!», mi voltai di scatto verso nulla, nessuno — silenzio. Ma verso la fine di quell’estate — doveva essere settembre, avevamo avuto una delle più belle estati a memoria d’uomo e Ganderhill era così ricca di verdure fresche che le vendevamo nei paesi vicini —, verso la fine di quell’estate ci fu una serie di pomeriggi in cui guardavo verso meridione dalla terrazza e il cielo si trasformava: una luce azzurra dorata di straordinaria intensità, una grande striscia luminosa con al centro un punto esattamente a sud della mia posizione, si spandeva nel cielo, riempiendone da un sesto a un quarto, dall’orizzonte fino al punto più alto che si riusciva a vedere — e allora compresi una cosa, meravigliandomi per il puro splendore e per la magnificenza dello spettacolo, sulla natura della presenza di mia madre a Ganderhill. Peccato, però, che più tardi quello stesso anno, in autunno e in inverno, quando lei restava nell’ombra e veniva solo al crepuscolo, io smarrii quell’intuizione e provai di nuovo un senso di frustrazione e, a volte, una rabbiosa impazienza per il fatto che continuava a prendermi in giro e a tormentarmi in quel modo. Eppure preferivo la sua presenza spettrale al nulla.

Questi sono gli anni che chiamo «belli», con Spider in pace. Alla sera giocavo a biliardo con Derek Shadwell, e poi (Derek morì a Ganderhill) con Frank Tremble. Leggevo i tascabili che passavano di mano in mano al Blocco F, molto raramente un giornale; non ascoltavo quasi mai la radio (apparentemente, grandi cose accaddero nei primi anni, ma io non volevo saperne). Mi beavo della presenza di mia madre, nella parte di dietro dove l’avevo sempre tenuta, e non parlavo di lei con nessuno, neanche con Derek quand’era vivo. Diventai un buon giardiniere e, poiché la verdura fresca era in genere un bene scarso e apprezzato a Ganderhill, il mio accesso a essa contribuì considerevolmente al mio status nell’istituto. Il dottor Austin Marshall dimostrava una calorosa affabilità nei miei confronti e si ricordava quasi sempre il mio nome quando veniva zoppicando sulla terrazza con il bastone. Spesso aveva con sé i suoi cani, una coppia di grandi setter irlandesi con il pelo lucido, verso i quali io manifestavo un affetto che non provavo; pensavo con un certo piacere a quello che John Giles avrebbe fatto a quei cani dopo aver finito col direttore.

(Immaginatemi fuori sul pianerottolo, adesso, con le mani aggrappate alla maniglia della porta che dà sulla scala del solaio, mentre la scuoto e piango a dirotto, e le loro risate stridono e ululano nelle mie orecchie: mi accanisco invano, naturalmente, la porta è chiusa a chiave, ovvio, per cui pensatemi mentre torno al tavolo e lì cado, scricchiolando irrigidito, sulla sedia e prendo del tabacco per arrotolarmi una «grassa», ne ho bisogno. Adesso il frastuono diminuisce, mentre con dita tremanti la accendo e tiro la prima buona boccata, che sento scendermi nella gola, scacciare il terrore, sbucare in dense volute nel mio unico polmone, in fondo al quale si trova un verme che perlopiù sonnecchia, i segmenti del suo grasso corpo bianco ammonticchiati l’uno sull’altro in forma circolare. Il fumo riempie rapidamente il sacco, viene assorbito dal tessuto spugnoso grigiastro, entra nel sistema di filamenti che disegnano le loro biforcazioni (ancora!) nella carnosa superfìcie interna del mio guscio e arriva al cranio e al cervello. Niente sembra troppo triste dopo una fumata.)

Ogni pomeriggio verso le quattro, la mezza dozzina di uomini che lavorava negli orti si riuniva nel casotto per una tazza di tè, insieme a Fred Sims, il nostro infermiere. Sims era un tipo tranquillo, di cui ci si poteva fidare per avere notizie. Ricordo il giorno in cui ci disse che il direttore stava per andare in pensione. La pioggia batteva sul tetto del casotto, noi eravamo dentro, seduti su casse di legno, con i pantaloni gialli, lui aveva l’uniforme nera e il cappellino a punta; la porta era aperta. Ci fu un moto di disagio a questa informazione; i pazienti nella nostra posizione non apprezzavano i cambiamenti. «Cosa, il dottor Austin Marshall?»

Sims annuì, con gli occhi a terra, mentre si toglieva un filo di tabacco dalla punta della lingua. Un altro moto di sorpresa. «E perché, Fred?»

Lui sollevò le sopracciglia e si strinse nelle spalle. «Troppo vecchio, vogliono uno più giovane.»

«Uno più giovane, eh?»

Lui si tolse il berretto e si grattò la testa. Era molto sottile in cima. «Sembra che l’abbiano già scelto,» disse.