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«E chi è, Fred?»

«È un certo dottor Jebb, di Londra.»

«Jebb,» disse Frank.

«Mai sentito,» disse Jimmy. «Che tipo è?»

«Ha idee nuove,» disse Sims.

Un silenzio molto teso, a questo punto, e strofinii di stivali sul pavimento. Intorno a noi, nell’oscurità, gli attrezzi pendevano dai chiodi alle pareti: vanghe, rastrelli, forconi, zappe, picconi, palette, cesoie. Sul pavimento, annaffiatoi ammaccati, mucchi di vasi, file di casse di legno. Scaffali con mazzi di indicatori tenuti insieme da elastici, cassette basse per la semina, rotoli di rete, gomitoli di spago, coltelli, matite, cucchiai, forbici, balle di reticella, vecchi giornali. Un forte odore di terra e di umidità. Fuori, l’uniforme scroscio della pioggia. «Idee nuove,» disse Jimmy. «Sembra che tu sia disoccupato, allora, Fred.» Ci facemmo una bella risata a questa battuta ma, quel pomeriggio, in tutti noi fu piantato il germe dell’ansia, perché nessuno voleva un cambiamento: né Frank, né Jimmy, né Sims, né io.

(Derek, naturalmente, non visse fino a vedere i cambiamenti che avvennero con l’arrivo del dottor Jebb, e fu fortunato. Ricordo che una volta mi disse che, per ogni sigaretta che lui fumava, sua madre doveva andare a letto con un marinaio. Povero vecchio Derek, sua madre era morta, anche se naturalmente non glielo ricordai. In quel momento stavamo giocando a biliardo, e la cosa peggiore, disse sparando una cannonata e imbucando la biglia rossa, era che lui stava fumando più che mai! Credo che possa essere stato questo che alla fine lo spinse a farlo.)

* * *

Dopo l’«estate di splendida luce», come giunsi a chiamarla, la presenza del fantasma di mia madre a Ganderhill si fece sempre più rara. Quell’estate fu il picco, l’acme, da questo punto di vista, e ci fu perfino un periodo — pochi giorni, non di più — in cui il tempo atmosferico finì sotto il controllo dei miei pensieri e delle mie azioni. Quelli furono giorni esilaranti, ma lo sforzo necessario per mantenere la splendida luce si rivelò alla fine eccessivo per me, così lentamente la lasciai svanire. In seguito, come ho detto, le sue apparizioni divennero più saltuarie e irregolari e, negli ultimi anni, l’ho vista forse non più di tre o quattro volte, e sempre al crepuscolo, nelle vicinanze del vecchio giardinetto del tè, ora coltivato a cavoli, cipollotti e patate, con una fila di paletti per i cetrioli sul lato sud.

Un giorno, Sims ci disse che il dottor Austin Marshall aveva sgomberato il suo ufficio e se n’era andato. Ci fu un banchetto di addio nel club dei dipendenti, durante il quale gli fu offerta una sedia a rotelle speciale, appositamente costruita nei laboratori di Ganderhill, perché sembrava che la sua gamba malata gli rendesse ormai impossibile camminare. Ci furono discorsi, e tutti si mostrarono molto commossi. Si parlò di una menzione nella Honors List dell’anno successivo.

Poi sembrò che Ganderhill trattenesse il fiato, in attesa degli sviluppi. Le notizie che Sims ci dava erano alternativamente allarmanti e rassicuranti. Si diceva che Jebb avesse intenzione di assumere nuovi psichiatri. Comunque, aumentò generosamente le distribuzioni di tabacco. L’atteggiamento di Sims verso il nuovo direttore era cauto e sospettoso come il mio.

Fui convocato nel suo ufficio una mattina alla fine di giugno. Avevo visto quell’uomo sulla terrazza, ma solo da lontano; per lui, niente tweed, niente cani, niente dell’affabilità cortese del suo predecessore. No, Jebb si muoveva in una nube turbolenta di decisione e vigore, che serviva solo a confermare le mie previsioni; indossava un abito scuro. Sedetti fuori dal suo ufficio su una sedia dura del corridoio, con le unghie sporche di terra e i pantaloni di velluto giallo: ero venuto direttamente dagli orti. Sedetti lì per trenta minuti, senza fumare; poi finalmente la porta si aprì, e un gruppo di infermieri anziani uscì con l’aria abbattuta. Il dottor Jebb allora mi guardò dalla soglia. «Le chiedo ancora un minuto,» disse, e tornò dentro, chiudendo la porta. Quindici minuti dopo mi chiamò.

Primo shock: mi disse di sedere, aggrottò la fronte leggendo la mia cartella, alzò la testa e si tolse gli occhiali — e io mi trovai a guardare dritto in due occhi della stessa fredda sfumatura di azzurro di quelli di mio padre! Mi ritrassi sulla sedia (dura, di legno). Aveva gli stessi capelli di mio padre — neri, fini, unti, pettinati all’indietro sulla fronte stretta e ondulati sulle tempie —, vi passava spesso la mano quando aggrottava la fronte. Lo stesso naso sottile, gli stessi baffetti che delineavano nettamente il labbro superiore, la stessa corporatura nervosa e lo stesso tono di energia esplosiva: che scherzo era questo? «Da quanto tempo è a Ganderhill?» disse senza preamboli, e fui sollevato nello scoprire che almeno la voce era differente.

Io mi agitai sulla sedia e mi schiarii la voce. Tutto ciò che riuscii a emettere fu una specie di gracchiare impotente. Lui aggrottò la fronte. «Quasi vent’anni, signor Cleg. Lei era molto disturbato al momento del ricovero…» — qui si rimise gli occhiali e lesse la cartella — «’… negativo… chiuso… non collaborativo… aggressivo.’ Si è calmato piuttosto alla svelta, però; ha fatto qualche amicizia, è diventato un buon lavoratore e, negli ultimi dieci anni, ha avuto un posto di fiducia come giardiniere, una fiducia di cui non ha abusato.» Si tolse gli occhiali di nuovo e mi guardò con quegli occhi di ghiaccio familiari. «Che ne direbbe di sperimentare la vita fuori di qui?»

Era quello che temevo. Malgrado ciò, non mi ero preparato una risposta. Mi mossi a disagio, guardai fuori dalla finestra, osservai le pareti: per fortuna, le battaglie navali non c’erano più. «Ebbene?» disse il dottor Jebb, battendo sulla scrivania con la punta di una matita: tap tap tap tap tap.

Io continuai a tacere, ad agitarmi interiormente in preda alla perplessità e allo sgomento. «Signor Cleg,» disse lui, sfregandosi gli occhi col pollice e l’indice della mano sinistra, «vediamo se riesco a immaginare quello che sta pensando. Da una parte…» — smise di sfregarsi gli occhi, li volse al soffitto, formò una guglia con le dita e vi appoggiò il mento — «… da una parte lei ha paura di abbandonare Ganderhill. Ha degli amici, qui, una routine, un lavoro…» — incominciò a contare le mie «credenziali» sulle dita — «… una certa…» — qui alzò le sopracciglia, comunicando ironia — «… anzianità all’interno della comunità dei pazienti e una profonda conoscenza del funzionamento dell’ospedale. [Si chiamava «ospedale», adesso?] Lasciare tutto questo, entrare in un mondo ignoto, è minaccioso; lei percepisce le difficoltà, i pericoli che la aspettano — e ha ragione, naturalmente, ci saranno delle difficoltà: la sua apprensione è perfettamente comprensibile.» Appoggiò le mani piatte sulla scrivania e mi fissò con indulgenza. Le mie mani si stavano comportando molto stranamente, a questo punto: sembrava che si stessero torcendo, ruotavano sui polsi, si rovesciavano; me le strinsi fra le ginocchia e afferrai la mia calza per confortarmi. «Dall’altra parte,» disse il dottor Jebb, «lei immagina come dev’essere la vita fuori da Ganderhill — senza porte chiuse e mura. Immagina come dev’essere bere un bicchiere di birra alla sera, conoscere delle donne. La prospettiva finirà per vincere le sue preoccupazioni. [Bere birra? Conoscere donne?] È, concordo con lei, un dilemma: non creda, la prego, che non me ne renda conto.»

Chiaramente si aspettava da me qualche risposta, ma io non potevo parlare senza fumare e non potevo fumare senza parlare. Dopo qualche momento di disagio, il dottor Jebb riprese: «Signor Cleg, vediamo se riesco a ricostruire la sua storia qui dentro. Quando lei giunse a Ganderhill era un ragazzo molto ammalato; in effetti, mostrava la maggior parte dei sintomi classici della schizofrenia. Aveva frequenti allucinazioni nelle sfere visiva, auditiva e olfattiva; le sue reazioni emotive erano stranamente inadeguate; aveva numerose idee fìsse, era affetto da una sindrome regressiva, soffriva di manie di persecuzione e di confusione mentale.» Guardò la cartella. «Era aggressivo in reparto e spesso doveva essere isolato in camera di sicurezza, legato. Mostrava di non comprendere il suo ambiente, né perché era stato condotto a Ganderhill. Io credo,» disse, chiudendo la cartella, «che tutto questo sia cambiato.»