«Cambiato,» mormorai.
«Cambiato,» ribadì. «Negli ultimi dieci anni lei si è assunto sempre più la responsabilità della sua vita. L’ospedale le ha imposto dei doveri, signor Cleg, doveri relativi alla pulizia, alla puntualità, alla competenza, alla socievolezza e alla cooperazione; lei ha risposto positivamente a queste richieste. La sua terapia è stata implicita nel ritmo quotidiano di impegni e contatti; non possiamo fare più niente per lei.»
«Più niente,» dissi debolmente.
«Ho bisogno del suo letto, signor Cleg.»
Il mio letto!
«Ganderhill è sovraffollato, e io credo che lei stia abbastanza bene da poterci lasciare. Ci sono delle ragioni per cui non dovrei affidarla alle cure di una comunità?»
«Sì!» gridai d’un tratto, senza averne l’intenzione; poi, scioccato dalla mia stessa audacia, caddi nel mutismo.
«E cioè?»
Silenzio.
«Cioè, signor Cleg?»
Niente.
«Signor Cleg, credo che lei dubiti della sua capacità di comportarsi adeguatamente nella società. È questo il problema?»
Ancora niente.
«Credo che forse è giunto il momento di parlare di sua madre.»
«Non sono affari suoi!» gridai.
«Ah. Dunque è così. Non sono affari miei.» Si tolse gli occhiali; un leggero sorriso aleggiava sulle sue labbra sottili ed esangui, un sorriso che conoscevo fin dall’infanzia, un sorriso che non prometteva niente di buono per me. «Signor Cleg,» disse improvvisamente serio e deciso, «io sono il suo responsabile medico. Gli affari suoi sono affari miei.»
Quando arrivai agli orti, gli uomini stavano rientrando per il pranzo, per cui tornai indietro con loro. A tavola, fui silenzioso e preoccupato, e mi lasciarono in pace. Verso le due e mezzo del pomeriggio, abbandonai quello che stavo facendo (un falò di rifiuti vegetali) e mi diressi verso il casotto. Mi chiusi la porta alle spalle, sedetti su una cassa e, con un coltello che usavamo per togliere gli occhi alle patate da semina, mi aprii i polsi. Venti minuti dopo, Fred Sims mi trovò col sangue che gocciolava in un vaso da fiori pieno di terra. Mi ricucirono nell’infermeria e, all’ora di cena, stavo in una camera di sicurezza di un «reparto duro», con addosso un camicione di stoffa antistrappo, sorvegliato a vista.
Ho continuato a scrivere nelle lunghe ore notturne. Ho fumato quasi senza interruzione, accendendo ogni sigaretta con il mozzicone di quella precedente. Il verme che ho nel polmone non si è svegliato, credo in conseguenza del fumo. Sporadiche esplosioni in solaio, niente che non abbia già sopportato altre volte. Ero molto attento alle sensazioni provenienti dallo spazio vuoto nel mio petto, perché adesso avevo ragione di ritenerlo infestato da ragni. Immaginavo trame di ragnatele scintillanti nell’oscurità, umide trappole di seta tese dallo sterno alla spina dorsale, dalle costole al bacino. Creature che correvano, filavano e tessevano dentro di me — a quale scopo? Per sei giorni, rimasi nel «reparto duro», e dopo dieci anni al Blocco F lo shock fu enorme.
Tornò tutto come prima. Gabinetti senza porte, l’umiliazione di essere sempre visibile, sempre accessibile a occhi ostili. E gli odori! Candeggina scadente, soprattutto, quei pavimenti di piastrelle sbeccate erano passati due, tre, quattro volte al giorno con acqua bollente e candeggina: sembrava sempre che ci fosse qualcuno che camminava lungo il corridoio, o avanti e indietro nel salone, con un vecchio spazzolone dell’istituto che terminava in un nido di ciuffi grigi e un secchio di alluminio con un attrezzo di metallo sull’orlo interno e un manico che si premeva per stringere i rebbi di quell’arnese sullo straccio e strizzarne fuori l’acqua sporca. Avevo dimenticato anche l’umiliazione quotidiana di dover chiedere minime quantità delle cose più essenziali: qualche pezzo di carta igienica, una presa di tabacco, un goccio di acqua calda. Magari la richiesta veniva esaudita, ma più spesso si restava lì a passare il peso da un piede all’altro mentre l’infermiere aggrottava la fronte infastidito e diceva di tornare più tardi, oppure ti sottoponeva a uno sguardo di fredda valutazione, lasciava trascorrere un momento, poi ti ignorava — tutto per tre riquadri di carta igienica dura, per pochi fili di tabacco pallido! Oh, la cortesia è sprecata con un pazzo, questo era il messaggio inciso nel freddo cuore di pietra di Ganderhill, è sprecata con un pazzo di un «reparto duro»!
Sei giorni rimasi nel «reparto duro»; poi una mattina mi condussero in fondo alla sezione per incontrare il dottor Jebb. Lui mi fece entrare nella saletta laterale e ci sedemmo. Pareti verdi, una finestra con le sbarre, una lampadina, un tavolo, due sedie di legno — nient’altro. Un portacenere di metallo in mezzo al tavolo. Io ero in maglietta e pantaloni grigi, con scarpe senza lacci. Lui aveva un abito scuro e una cravatta che immediatamente attirò la mia attenzione: era verde scuro e non aveva un disegno ripetitivo, ma un’unica immagine, in cui la figura dominante, uno scudo sostenuto da una coppia di draghi e sormontato da una specie di elmo alato, mostrava un serpente attorcigliato a un bastone. Allora non potevo capire appieno il significato della cravatta di Jebb; solo più tardi, riuscii a interpretarla in relazione ai cambiamenti che si verifìcavano all’interno del mio corpo e alla mia morte. Ciononostante essa provocò in me una sensazione di disagio. «Prego, fumi pure,» disse. Silenzio per qualche minuto, mentre con dita tremanti mi arrotolavo una «magra» e lui si toglieva gli occhiali e si produceva in quel familiare massaggio sugli occhi col pollice e l’indice — quante volte avevo visto lo stesso gesto, la stessa impazienza, nella cucina del numero 27! Poi, con un piccolo gesto delle dita verso i miei polsi fasciati, disse: «Assolutamente non necessario, signor Cleg, e molto melodrammatico. Mi ha deluso.»
Io non ero forte. Ero nel «reparto duro» da una settimana, ero stato completamente umiliato, non avevo nulla che potessi dire mio: niente stringhe, niente cintura, neanche una calza dentro i pantaloni. Non ero in condizione di reggere questa creatura dagli occhi freddi, questa copia di mio padre — questo Cleg-Jebb, o quello che fosse. Il silenzio era la mia unica arma, la ritirata di Spider nella zona di dietro, in qualche buco; tentai di fare questo mentre la voce saliva e scendeva, rimbombava e sibilava, e «Jebb» si rattrappiva, diventava minuscolo, e immense distese si aprivano in quella stanza dalle pareti verdi e dall’odore di candeggina. Ma dopo un momento… panico. Lunghi anni nel Blocco F, lunghi anni passati da uomo indipendente negli orti: qualcosa si era atrofizzato e, per quanto lottassi, non potevo sfuggire alla minuscola figura rimbombante dall’altra parte del grande tavolo. Si fece buio nella stanza, il ben noto incubo era su di me; ero rigido, pesante, bloccato; mi dibattevo nel davanti del mio cervello, incapace di sfuggire ai boati e ai sibili, agli occhi, alle mani, di questo Cleg-Jebb al di là del tavolo. «Un grido di aiuto,» rombava; «puro panico,» rintronava; «la necessità di affrontare,» sibilava mentre io mi contorcevo, non più Spider — lui era il ragno e io la mosca! «Sfuggire alla responsabilità dell’incidente,» sibilava; «lei ha ucciso sua madre,» rimbombava, e io mi alzai selvaggiamente in piedi e gli puntai contro un dito tremante. «Sei stato tu!» gridai. «Non io, tu!»
La porta che si apriva — infermieri; subito in una camera di sicurezza, e solo allora, solo allora Spider riguadagnò finalmente la sua antica prontezza e si infilò in un buco e mi lasciò a dondolare avanti e indietro in un angolo.