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Passai a Ganderhill altri tre mesi: uno nel «reparto duro», due giù al Blocco F. Ci furono altri colloqui con il direttore, nel corso dei quali egli ricostruì la mia «storia». Poi, una mattina fredda e nebbiosa all’inizio di ottobre, mi dimise. Immaginatemi in piedi davanti al portone principale, sotto l’orologio, in un vecchio vestito grigio, con in mano una valigia di cartone quasi vuota; pensatemi mentre giro la testa a destra e a sinistra, pensate al mio sgomento. In tasca avevo tre biglietti da una sterlina, qualche moneta e un pezzo di carta con su scritto l’indirizzo della signora Wilkinson.

* * *

Cleg-Jebb aveva ricostruito la mia storia, ma l’aveva ricostruita sbagliata sbagliata sbagliata: era una brutta storia. Se sapeva qualcosa del piano di mio padre per mandarmi in Canada non lo disse, così come non disse se capiva il mio terrore a quella prospettiva, se in altri termini aveva saputo ciò che era realmente avvenuto di mia madre. Non era difficile immaginare quello che sarebbe seguito: sarei stato attirato agli orti in una notte di nebbia e là, fortificato dal bere e dalla presenza di Hilda, mio padre mi avrebbe abbattuto con un attrezzo da giardiniere. Avrebbe scavato un’altra buca (mostrando di nuovo quella sollecitudine stranamente incongrua per le piante di patate), poi, sempre sotto lo sguardo di approvazione di Hilda, mi avrebbe buttato dentro e ricoperto di terra e, senza neanche il benefìcio di un lenzuolo, sarei ben presto diventato cibo per larve, scarafaggi e vermi, che non avrebbero lasciato di me altro che un mucchio di lunghe ossa staccate e scollegate, destinate a diventare sempre più divise a ogni movimento del terreno, finché la mia fragile struttura avrebbe perduto la poca coerenza e integrità che aveva posseduto in vita e si sarebbe dispersa nel sottosuolo di Londra! Poi, giù al Dog and Beggar, quando gli uomini avessero chiesto: «Dov’è finito quel tuo ragazzo, Horace?» o: «Dov’è il piccolo Dennis?», mio padre avrebbe detto, col suo sorrisino astuto, magari asciugandosi la birra dal labbro superiore: «Ha raggiunto sua madre in Canada» — e Hilda non sarebbe riuscita a reprimere una rauca esplosione di risa antipatiche, e questo sarebbe stato il mio epitaffio.

Sedetti in camera mia e li sentii mormorare giù in cucina. Poi uno strascichio di sedie, Hilda che salì brevemente, e pochi minuti dopo se ne andarono dalla porta sul retro. Io scesi da basso e uscii dietro di loro. Li vidi nel vicolo, a braccetto, che svoltavano a destra in fondo, verso il Rochester. Tornai di sopra, allora, e tirai fuori da sotto il letto un gomitolo di spago marrone che avevo rubato. Ne tagliai un pezzo e legai un’estremità alla gamba del letto. L’altro capo lo lasciai cadere fuori dalla finestra; si raccolse in un rotolo arruffato nel cortile, vicino alla porta. Scesi di nuovo, tirai dentro la corda dalla finestra della cucina (aperta un centimetro) e la legai a uno dei rubinetti della cucina economica. Tornai di sopra e, seduto vicino alla finestra aperta, tirai lo spago finché fu ben teso fra le mie dita. A questo punto incominciai a strattonarlo dolcemente; potete immaginare a che scopo.

Andai su e giù per la mezz’ora seguente, sistemando lo spago, cercando di farlo funzionare. La corda si tendeva, ma il rubinetto del gas non si apriva e, se tiravo più forte, si spezzava nel punto in cui sfregava contro la finestra. Incominciai a pensare a qualche meccanismo per farla scorrere bene, una sorta di spoletta montata su un perno o su una bobina, ma come attaccare un aggeggio simile alla finestra della cucina senza che lo si notasse? Poi sentii il suono degli stivali chiodati nel vicolo e le voci forti, per cui liberai il rubinetto, corsi di sopra e ritirai la corda. Entrarono in cortile, Horace e Hilda, Harold e Glad, a braccetto e sconvolti dal bere — Hilda, ridendo sguaiatamente della propria mancanza di equilibrio quando si allontanò da mio padre (che era il più sobrio dei due), si schiantò contro il gabinetto, dove la sentii gridare, battere alla porta e cercare di accendere la candela. Gli altri entrarono, e la luce della cucina venne accesa; poi Hilda uscì dal gabinetto, tirandosi giù la gonna, e prima ancora di raggiungere la porta sul retro aveva preso a esprimere ad alta voce il suo stupore per il fatto di vivere con un idraulico incapace di riparare il proprio water. Era una vera disgrazia (si peritava di informarci), ma a questo punto Gladys stava strillando in cucina; al che, sentii Hilda dire: «Dai, Glad, bevi qualcosa, ti farà bene.» Chiusi la porta, tornai alla finestra e cercai di dimenticare il loro rumore. Quando finalmente Harold e Glad se ne andarono, mi misi ad ascoltare attentamente alla porta: Hilda salì per prima, mio padre poco dopo; non si sarebbe addormentato sulla sedia vicino alla stufa, quella notte.

I giorni seguenti furono pieni di stranezze e terrori. Non riuscivo a stare in casa e, quando uscivo, i miei passi sembravano portarmi sempre contro la mia volontà agli orti, all’orto di mio padre — e questo malgrado sapessi che intendeva uccidermi là. Nelle giornate molto fredde, mi intrufolavo nel casotto, dove accendevo le candele e mi avvolgevo nei sacchi delle patate per riscaldarmi. Una volta, al tramonto, scorsi mia madre vicino ai resti del mucchio di compost; ma quando corsi là, lei era scomparsa. Un’altra volta, vidi dal ponte della ferrovia che il casotto era in fiamme — un furioso, grande falò nell’immobilità della luce pomeridiana —, ma quanto più mi avvicinavo, tanto più diminuiva, e quando raggiunsi il cancello la costruzione appariva com’era sempre stata. Spesso mi sdraiavo sul terreno gelato per sentire mia madre che mi cercava; sovente restavo deluso, ma in parecchie occasioni mi invitò a raggiungerla: questo mi faceva soffrire acutamente; l’amore e il terrore permeavano il mio cuore in eguai misura, con eguale passione, così mi sembrava.

Talvolta scendevo in cantina e sedevo in un angolo annusando il carbone e guardando i germi neri danzare nelle poche lame di luce del giorno che filtravano dalle assi del pavimento di sopra. Faceva freddo, laggiù nella carbonaia, per cui mi avvolgevo la testa e le spalle in un pezzo di sacco sporco a forma di saio e rannicchiavo le ginocchia al petto e le circondavo con le braccia; rabbrividivo e sbuffavo la condensa del fiato verso i raggi di luce: allora vedevo i piccoli germi, i diavoletti, girare e ondeggiare selvaggiamente, e questo mi faceva ridere. Un pomeriggio, mentre ero seduto immobile e in silenzio, un topo uscì strisciando e andò lungo il muro a piccoli scatti, fermandosi ogni pochi passi per arricciare il musino. Dopo questo fatto, tirai fuori il formaggio dalle trappole e lo sparsi a pezzetti sul pavimento; così facendo, potei vedere parecchi topi contemporaneamente. Mi piacevano le loro code, com’erano lunghe, grassocce e pallide, e coperte da una leggera peluria, mentre strisciavano dietro di loro come corde sul ponte di una nave. Una volta, Hilda mi senti ridere laggiù, e la porta si aprì, la luce penetrò dall’alto. «Cosa fai lì?» gridò. Seduto nel mio angolo, avvolto nel mio saio, nell’ombra, non dissi nulla; lei scese di qualche passo in quel suo strano modo laterale di percorrere le scale e vide i topi. Con un grido di orrore, risalì, e la porta si chiuse di scatto alle sue spalle! Risate dall’ombra. Quando mio padre tornò a casa dal lavoro, lo costrinse a scendere e ad armare le trappole. Il giorno dopo c’erano due topi morti. Me li misi in tasca. Risistemai io stesso le trappole: mi piacevano sia morti che vivi. Una volta, mentre ero nell’angolo, sentii una voce che diceva: «Spider!» Non era la voce di mia madre, era una voce spezzata e profonda, come quella di una vecchia, e io capii che era la strega che viveva nel muro. Non tornai più in cantina, dopo questo fatto.

Presi ad aggirarmi sotto il ponte del canale, dove c’era buio. C’erano molte cose, nel mondo visibile, che ormai mi procuravano una terribile ansia — avevo costantemente la sensazione che stesse per verificarsi qualche immane catastrofe e questa percezione talvolta diventava così forte che stramazzavo al suolo vicino al muro sotto il ponte e mi coprivo gli occhi e le orecchie con le braccia. Era la paura che mio padre mi facesse raggiungere mia madre in Canada, era la paura di essere aggredito con un attrezzo da giardiniere nel momento in cui meno me lo aspettavo. Tentai di non fargli capire quello che sapevo, ma non potevo più dormire al numero 27, e mangiavo a malapena — perché avrei dovuto farlo? Perché avrei dovuto toccare carni o verdure preparate da Hilda? Le loro facce stavano cambiando, adesso: li vedevo mangiare, con le mascelle in movimento, gli occhi brillanti nell’oscurità della cucina, i denti che si chiudevano su pezzi di cibo, ma ogni immagine era fissata in uno spazio diverso e distinto, e solo combinando frammenti dei loro volti e delle loro mani riuscivo a metterli a fuoco e a prestare attenzione alle loro attività. Ben presto persero qualsiasi parvenza di umanità potessero aver avuto e, in quell’aspetto frantumato, mostravano la loro vera natura, la loro morte e la loro animalità; quando vedevo ciò, la sensazione di disastro incombente quasi mi sopraffaceva e fuggivo dalla cucina terrorizzato, ignorando le loro grida e i loro gemiti di fame frustrata, perché pensavano di mangiarmi, pensavano di divorarmi.