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Alla notte ero più calmo, in parte come conseguenza del buio, in parte perché loro erano spesso fuori di casa. Talvolta li seguivo quando andavano al Rochester, li guardavo dalle finestre mentre bevevano e, se Hilda andava in bagno, salivo sopra una botte per spiarla mentre pisciava. In altre occasioni, restavo a casa e facevo delle prove con pezzi di spago tesi dalla mia finestra al rubinetto della cucina economica. Una volta, mentre tiravo lo spago e cercavo di far ruotare il rubinetto, ma sentii la bocca riempirsi di uccellini, che stritolai fra i denti: le piume, il sangue e le ossa frantumate incominciarono a soffocarmi e vomitai e vomitai, ma non venne fuori nulla. Un’altra volta, trovai una bottiglia di latte vicino al canale; in essa c’era il cadavere putrefatto di un uomo che mio padre aveva assassinato la sera prima; la aprii e bevvi il latte. Un’altra volta ancora, trovai un bambino con un buco in cima alla testa, attraverso il quale succhiai e inghiottii tutto ciò che c’era nel capo del bimbo, finché la sua faccia collassò come una maschera di gomma vuota. Più tardi, mi ricordai che questo è il modo in cui i ragni divorano gli insetti. Quella sera casualmente caddi addormentato, e mio padre entrò e mi compresse il cranio con un pappagallo da idraulico e, quando mi svegliai, avevo la testa a forma di pera: questo perché si adattasse al sacco che avevano preparato per assassinarmici dentro.

Diventavano sempre più affamati man mano che i giorni passavano, e io sapevo che il momento sarebbe arrivato presto. Quando Hilda mi guardava, la saliva le colava dalla bocca e le scivolava sul mento rozzo. Mio padre era più furtivo nelle sue manifestazioni di appetito: mi guardava sempre con la coda dell’occhio. Le sue mani, notai, somigliavano a zampe, adesso. Morte e animalità: non avevo un nome per creature del genere: non ce l’ho neanche adesso, malgrado il fatto che una di esse in questo momento giaccia addormentata dall’altra parte della casa, tranquilla per la convinzione che le sue creature in solaio — a dispetto del loro momentaneo tradimento — la preserveranno dal male. Ascoltatele!

Ascoltatele. C’è un ritmo nella loro attività, tre onde distinte, ciascuna che sale e scende, ciascuna separata dalla precedente da un momento di calma o iato durante il quale provo sia il sollievo sia il tormento dell’attesa (un’anticipazione intensa quanto l’onda stessa). Ciascuna incomincia al livello della massima veemenza di quella che l’ha preceduta, per cui c’è un massiccio incremento di volume e di frenesia tra la prima e l’ultima parte della notte. E cos’è che fanno? Impossibile essere precisi: ci sono canti, passi e anche sibili, grida, urla e strilli solo in parte intelligibili, scrosci di risa, voci di persone che ho conosciuto che dicono cose assolutamente imprevedibili: il dottor Austin Marshall recita versi osceni, per esempio. Usano il mio nome liberamente, ci giocano su, lo invertono: «gelc», mi chiamano, «gelc», e recentemente hanno inventato la canzone: «gelc SINNED gelc sinned gelc sinned gelc sinned gelc SINNED gelc sinned gelc sinned gelc sinned…» La ripetono in continuazione, sempre più forte, battendo i piedi in modo tale che la lampadina oscilla avanti e indietro appesa al cavo, e io sono immerso nell’ombra, poi riportato alla lurida vita, immerso nell’ombra, riportato alla lurida luce — e mi raggomitolo sulla sedia con le gambe rannicchiate sul petto e la testa fra le ginocchia e le mani sulle orecchie, piangendo piangendo piangendo, mentre loro mi spingono fino al limite della sopportazione. Poi tutto finisce in stridule risa, tutto questo gradualmente scema, seguito da borbottii — e lentamente alzo la testa e mi aggrappo tremante all’orlo del tavolo, magari prendo la matita o mi arrotolo una sigaretta veloce, mentre loro si preparano alla prossima ondata — che incomincia, come ho detto, al culmine della frenesia dell’ultima!

Tre onde, seguite dalla spossatezza. Finalmente mi alzo dalla sedia e resto immobile a guardare fuori dalla finestra, a guardare verso est per cogliere il primo debole segno dell’alba, e mi ripeto: «Basta.» Mi aggiro per la casa addormentata, davanti a porte oltre le quali sognano le anime morte; scendo le scale in punta di piedi e vado in cucina, torno nell’atrio, getto un’occhiata nell’ufficio della signora Wilkinson — ed è allora che le vedo: sulla sua scrivania, sparpagliate nel buio, le chiavi della casa. Le chiavi della casa. Un silenzioso grido di gioia risuona dentro il vostro vecchio Spider mentre attraversa la stanza e, con un agile e rapido movimento, intasca il mazzo. Poi via, con lunghi passi da ragno, di nuovo di sopra, di nuovo in camera sua, non visto, non udito, non fermato da nessuno.

* * *

Con la valigia di cartone in mano e le tre banconote da una sterlina in tasca, mi voltai per dare un’ultima occhiata al portone di Ganderhill. Fiancheggiato da una coppia di torrette quadrate, era alto cinque metri e terminava con un arco a sesto acuto, al di sopra del quale c’era un enorme orologio che segnava le dieci e un minuto. Era una bella mattina chiara, e il sole autunnale illuminava morbidamente i mattoni. Una porticina si apriva nel battente di sinistra, ed era da questa porticina che io ero emerso. Il signor Thomas stava sulla soglia; era capo infermiere adesso e si era occupato dei dettagli della mia dimissione; mi aveva anche omaggiato di un paio di pacchetti di Capstan Full Strenght. Sollevò la mano, io alzai la mia; tornò dentro e la porta venne richiusa.

In qualche modo, trovai la strada per il paese e salii a bordo dell’autobus giusto. Sedetti vicino al finestrino e fumai; osservai la campagna mentre ci dirigevamo verso Londra, cercando di controllare le forti ondate di spaesamento e di nostalgia che a tratti quasi mi sopraffacevano. Mi sentivo, in un certo senso, come dopo la morte di mia madre — la stessa sensazione di essere isolato, senza amici, in un mondo estraneo e minaccioso. Vent’anni a Ganderhill, come conoscevo bene quel posto! I cortili e i corridoi, i giardini e i gabinetti — permeati, tutti, dai fugaci sussurri della sua presenza, poiché mi si mostrava timidamente, di quando in quando, nell’ombra irregolare di un olmo, su una terrazza solitaria al crepuscolo. E, oh, i ritmi e i rituali che governavano la vita lì — in tutto questo, io avevo un posto, ci si preoccupava che avessi un posto. Mentre sedevo su quel lento autobus diretto a Londra, fra le casalinghe con le borse della spesa, seppi con assoluta certezza che non potevo sperare nulla di meglio — non io, non il vecchio Spider; adesso era finita davvero, perché Jebb non mi avrebbe mai ripreso, me l’aveva fatto capire abbastanza chiaramente. Ora sui miei pensieri aleggiava un’ombra infausta, perché sentivo i primi leggeri segnali del disastro che si avvicinava — là fuori, nel lontano orizzonte, qualcosa di grosso e nero e terribile si stava muovendo verso di me. Perché cosa potevo dare io a questo mondo nel quale ero stato gettato all’improvviso, e cosa poteva darmi lui?