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Poi arrivammo sulla strada principale e si andò più velocemente. Io cercavo di vedere cosa mi aspettava, ma non ci riuscivo: non riuscivo a immaginare il tipo di vita che dovevo condurre adesso. Come avrei vissuto? Chi sarei stato? Dennis Cleg di Ganderhill? Il pazzo? Oh, sicuramente no: sapevo immaginarmi almeno l’effetto che avrebbe avuto, gli sguardi freddi, i sogghigni, i sussurri sprezzanti — gli schemi di pensiero, insomma. All’improvviso, mi vidi scagliato nel vuoto e, per alcuni minuti, divenni scollegato per il terrore e mi bloccai rigido sul sedile con la sigaretta a metà strada verso le labbra. Immediatamente sentii gli occhi delle donne su di me, le loro teste che si chinavano l’una verso l’altra, i mormorii, le risate sommesse, gli sbuffi di disprezzo. Passò abbastanza alla svelta, grazie a Dio, e con uno sforzo riuscii a conservare la calma. Poi incominciai a vedere strade e palazzi, e capii che eravamo alla periferia della città, e questo mi diede un piccolo conforto; io sono Spider di Londra, dopo tutto! Lungo le rive vicino al ponte di Westminster, il Tamigi brillava di una luce verde scintillante nel sole autunnale, e la sua vista mi fece bene. Un po’ di familiarità, ecco tutto, qualcosa di noto, addolcisce l’anima, dà forza. Tirai fuori il foglietto con l’indirizzo della signora Wilkinson: conoscevo il posto, ci ero andato spesso da ragazzo. Era nell’East End, sapete.

Qualche problema con la gente, all’inizio — gli occhi, gli schemi di pensiero! L’aria ne era piena, e di nuovo mi scollegai, rimasi nel centro della Victoria Coach Station, aggrappato alla mia valigia e immobile come una statua. Ma questa era Londra, dopo tutto, e io la conoscevo, e ben presto uscii per cercare l’autobus numero 27 — o era il 37, o il 137?

Nel tardo pomeriggio, arrivai alla porta della signora Wilkinson. Mi ero perso parecchie volte, perché la città era cambiata in modi per me incomprensibili. Bussai; lei aprì la porta. «Signor Cleg?» disse. «L’aspettavamo.» Entrai, esausto e confuso e prossimo alle lacrime, e neanche per un istante capii chi era. Solo adesso riesco a cogliere le implicazioni di quelle sue prime parole. Avrebbe potuto dire: «L’aspettavamo per poter finire il lavoro incominciato in Kitchener Street vent’anni fa.»

* * *

Mi avvolsi in giornali nuovi, trovai delle calze pulite nel comò e buttai le vecchie in un buco dietro l’attacco del gas. Poi, disteso supino sul letto, le mani dietro la testa, le gambe incrociate alle caviglie, guardai il fumo della sigaretta che saliva e volteggiava verso il soffitto. Nei pantaloni, fra le cosce, nella mia calza, la solida pressione delle chiavi di casa. Sono fermate da un grosso elastico, per impedire che sbattano l’una contro l’altra e tradiscano così la loro presenza.

La campanella, finalmente, e io mi alzo dal letto e scendo allegramente le scale, mentre le prime anime morte emergono dai loro buchi, battendo le palpebre. Tutto come al solito in cucina — la «baffona» che fa cadere la cenere nella pentola, la tela cerata sul tavolo appena pulita e puzzolente di candeggina, il sibilante borbottio del porridge mentre il vapore sale dalla pentola e si mescola al fumo di sigaretta nel raggio di sole invernale proveniente dalla finestra sopra il lavandino. Le anime morte entrano, io bevo il tè, niente latte, molto zucchero. Non mangio adesso, essendo il mio intestino avvolto alla spina dorsale, ma bevo il tè: ripulisce dai ragni.

Poi Hilda riempie la porta, squadrandoci da molto in alto e chiedendoci se abbiamo visto le sue chiavi. Una contrazione di eccitata colpevolezza laggiù, dove la calza appesantita preme contro le mie cosce ben coperte. Oh lei aggrotta la fronte, oh il magnifico terrore, oh che furia, oh immaginare di cedere e, con deliziosa vergogna, estrarre la calza e porgergliela con le dita tremanti e gli occhi bassi, le guance in fiamme, desiderando la punizione, chiedendo l’umiliazione, l’abbattimento, la pena! Ma conservo la calma, la fisso (che volpe!) con gli occhi vuoti e la bocca aperta, scuoto la mia lenta testa quando i suoi occhi penetranti ruotano verso di me, mi bruciano l’anima: ma la verità è che non c’è anima, solo ragni adesso, solo ragni! Poi, aggrottata e tempestosa, se ne va; io bevo dell’altro tè, tocco la calza, mi arrotolo una «grassa», nascondo la mia felicità.

Poi fuori, fuori nell’aria frizzante e chiara, ma non senza un incontro finale vicino alla porta d’ingresso, non senza che lei mi chieda se ero sicuro di non sapere nulla delle sue chiavi. Vuota, muta e inutile stretta di spalle da parte dell’astuto Spider, la cui presenza segreta è tutta nella calza, mentre la faccia in alto registra solo una stupida, sorpresa ignoranza.

All’inizio, cammino velocemente — velocemente per me — oltre il parco, dove i corvi battono le ali sui rami nudi, oltre il cimitero chiuso; poi una brusca svolta a sinistra e giù lungo il viadotto della ferrovia (scorci dei gasometri attraverso le arcate) e dopo, con passo sempre più lento, verso il canale. Verde nerastro nella luce mattutina, improvvisi bagliori di diamanti sull’acqua, sole invernale — e c’è mia madre sul ponte gobbo, che mi dà le spalle, e io mi fermo immobile, divento scollegato, guardo attonito, con gioia vertiginosa, la chiarezza della sua forma in controluce. Con il viso ancora nascosto dalla sciarpa, lei prosegue e si perde dietro a un muro dall’altra parte, dal lato di Kitchener Street.

E ora finalmente percorro il sentiero fino al ponte e, per la prima volta da vent’anni, tocco il corrimano di ferro: sento quanto è freddo, e vado avanti. Oh, terrore! Oh, con quei primi passi un caos di turbolenze e un vortice di fluidi dentro di me, e voci che si levano, cachinni increduli, gemiti di paura — ma a dispetto di tutto ciò, io attraverso il ponte: continuando ad avanzare alla cieca con tutte e due le mani sulla ringhiera, attraverso il ponte.

E adesso cammino per strade nello stesso tempo familiari e sconosciute, stranamente vuote, in qualche modo stranamente desolate. Mi imbatto in un uomo con un cavallo. Sono fermi in fondo a una strada senza uscita, sotto un alto muro di mattoni. L’uomo indossa una camicia bianca con le maniche rimboccate; il cavallo ha solo una briglia. Io resto immobile e guardo l’uomo che afferra la redine e, voltato di sbieco verso il cavallo, lo guida lentamente in mezzo alla strada. Incomincia a correre, gridando al cavallo, che alza gli zoccoli, i ferri risuonano sul selciato freddo, e ritrae le labbra scoprendo i denti mentre la lunga testa si solleva ed emette un forte nitrito. Vengono verso di me nella strada vuota: l’uomo mezzo girato che corre in maniche di camicia bianca e il cavallo al trotto che agita la testa; si formano delle nuvolette mentre il loro respiro diventa nebbia nell’aria fredda. L’uomo fa rallentare il cavallo quando sono vicini alla mia estremità della strada, lo mette al passo, poi la fa voltare — io guardo i fianchi ansimanti della bestia! — e lo riporta al trotto verso l’estremità opposta.

Mi allontano cercando mia madre. All’angolo, vedo un pub bruciato da un incendio, le bianche pareti macchiate e annerite dal fumo e le finestre come semplici buchi neri, prive di vetri, occhi ciechi. Sopra la porta, sbarrata con assi, pende l’insegna, ma il metallo si è contorto per il calore e la scritta risulta talmente rovinata che il nome è illeggibile. Svolto un altro angolo — e mi trovo all’ombra dei gasometri di Spleen Street.

Oh Cristo, il rubinetto della stufa a gas, il rubinetto il rubinetto il rubinetto della stufa in cucina; oh Cristo, evitami questa prova: uno spinotto scanalato di materiale duro fissato da dietro con una vite a un tubo attaccato al bruciatore del gas. In uno dei rubinetti una vite rivolta verso la finestra: un paio di giri con un cacciavite ed essa uscì quanto bastava perché io potessi legarvi un pezzo di spago, che poi tirai non fuori dalla finestra, ma fino a un gancio fissato al pavimento e poi lungo l’impiantito e sotto la porta fino a un chiodo che avevo piantato di fianco alla scala, appena sopra il pavimento, poi su in verticale fino al pianerottolo. E quando lo tirai, si tese dal rubinetto al gancio, dal gancio al chiodo e dal chiodo a me; e quando lo strattonai delicatamente, il rubinetto si aprì leggermente e il gas incominciò a diffondersi nella cucina…