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Oh, distolgo gli occhi, volto le spalle alle massicce cupole, la loro vernice scrostata e rugginosa orribilmente vivida nella luce mattutina e le loro strutture a croce che si moltiplicano all’infinito sopra la mia testa: qui c’è orrore, l’orrore della riproduzione, per cui distogliendo lo sguardo mi allontano. Devo andare a casa, mi dico, devo andare a casa, devo andare alla casa di Kitchener Street, dove mia madre mi sta aspettando vicino alla porta sul retro.

Adesso le strade sono dolorosamente familiari, e i ricordi sorgono a mucchi dai profondi recessi della mia mente, e io resto scollegato per molti minuti e devo appoggiarmi a un muro e, con dita incerte, tentare di arrotolarmi una sigaretta; nel mio polmone, il verme sembra stirarsi. Una donna con una borsa a rete piena di pacchi avvolti in carta marrone e legati con lo spago si ferma davanti a me e mi chiede se sto male. Io mi stacco dal muro e mi allontano. Devo andare a casa da mia madre! Allora scendo lungo Victoria Street e non quest’angolo, non il prossimo, ma quello dopo è Kitchener Street. Ascoltatele adesso! Che banda maledetta! Ma arriva lui, l’abile vecchio Spider, la stoffa che sbatte sulle membra coperte di giornale, trenta metri, quindici — oh, un gran martellare nel mio petto adesso, il verme si sveglia, e poi sono all’angolo, lo svolto e guardo…

Niente. Una barriera di lamiera ondulata. Cosa mi sta succedendo? Attraverso una fessura nella recinzione vedo un terreno desolato, pieno di buche. È disseminato di mucchi di mattoni e macerie e di erbacce con fiori viola, e qua e là ci sono pezzi di tubo nero di gomma, lattine arrugginite, vecchie scarpe, copertoni. Cosa mi sta succedendo? Scrosci di risa, un cane che abbaia. È opera mia, questa?

* * *

Di nuovo al mio tavolo, adesso. Molto scosso da ciò che ho visto stamattina, molto fragile, molto debole. Mi ero lanciato nella strada in preda al panico, passando da un lampione all’altro come un ubriaco, fino al punto in cui doveva trovarsi il numero 27. Un buco nella recinzione: ci avevo attaccato l’occhio e avevo trovato un altro buco, una leggera depressione piena di pezzi di mattoni, tegole, legni, spazzatura, le solite erbacce coi fiori viola che oscillavano nel vento; e una voce aveva detto: «Questa è opera tua.»

E allora, mentre stavo appoggiato alla recinzione, disperato e in lacrime, era giunto un odore, e poi un ricordo, uscito da qualche piega profonda della mia mente: vidi me stesso seduto alla finestra della mia camera sopra la cucina, che guardavo Horace e Hilda uscire per andare al pub. Poi vidi me stesso che scendevo lentamente le scale, percorrevo il corridoio ed entravo in cucina. Vidi me stesso sistemare la mia trappola: attaccai un capo dello spago alla vite sul rubinetto della stufa a gas, poi lo feci passare attentamente nell’anello e sotto la porta e fuori nel corridoio fino al chiodo accanto alla scala. Stando a metà della scala, lo avvolsi delicatamente al chiodo e poi, salendo fino in cima, lo fissai alla balaustra. Quindi rientrai in camera mia e attesi il loro ritorno.

Vidi me stesso di nuovo seduto alla finestra con la luce spenta. Ricordo che avvertivo una specie di ronzio nelle orecchie che annientava tutti gli altri suoni, sicché quando tornarono Horace e Hilda sembrarono attraversare il cortile in perfetto silenzio, e al rallentatore; i loro movimenti erano goffi e scoordinati, e io dovetti ficcarmi un lenzuolo in bocca per bloccare l’ondata di risa che lo spettacolo provocava in me. Finalmente raggiunsero la porta sul retro ed entrarono; sentii le voci forti per qualche minuto, poi il passo lento e pesante di Hilda sulle scale, di Hilda sola. Questo produsse un silenzioso grido di esultanza nel giovane e inquieto Spider: come fu difficile soffocare le mie risa, allora! Aspettai cinque, dieci, venticinque minuti — venticinque minuti che sembrarono venticinque anni! Poi scivolai silenziosamente fuori dalla mia camera: la casa era buia e silenziosa, la porta della cucina era chiusa. Quasi senza respirare, sedetti in cima alle scale e slegai lo spago dalla balaustra. Delicatamente, molto delicatamente lo tirai; nella mia immaginazione lo vedevo tendersi dal rubinetto all’anello, dall’anello al chiodo e dal chiodo a me; lo trattenni un lungo momento, pensando: lo spago è nelle mie dita, la sua vita nelle mie mani. Poi tirai — si mosse —, abbastanza. Legai di nuovo lo spago alla balaustra e scivolai in camera mia.

Insonne per il trionfo, sedetti a gambe incrociate sul letto, al buio. Sussultavo ridendo silenziosamente. Poi lentamente, lentamente dal basso, alla fine salì alle mie avide narici in attesa un debole ma inequivocabile odore di gas…

Sì, quella era proprio opera mia. Mi ero allontanato dalla recinzione; il panico si era placato e mi sentivo stranamente calmo (anche se con tutta quell’eccitazione il verme nel mio polmone si era svegliato). Notai allora che, sull’altro lato, le case coi numeri pari erano intatte, sebbene le finestre apparissero sbarrate; c’erano degli edifìci ancora in piedi anche da questa parte, verso il fondo. Proseguii più sicuro adesso, diretto verso il fondo della strada. Là trovai tre case: numero 53, sbarrata; numero 55, anch’essa sbarrata; e il Dog and Beggar. Il Dog and Beggar! Mi appoggiai al muro e risi: sì, immaginate un po’, immaginate un po’ il vostro Spider che a questo punto si appoggia a un muro col suo grosso mento sollevato e lascia partire una breve, roca risata, sommessa e ansimante. Ma, dopo un momento, si staccò dal muro, andò all’ingresso del locale pubblico ed entrò.

L’uscio si chiuse alle sue spalle. Nulla era cambiato. Erano le undici di mattina, e la fredda luce del sole entrava dalla finestra vicino alla porta. Un piccolo fuoco di carbone bruciava nel caminetto, e a un tavolo lì accanto sedeva un uomo anziano con un bicchiere di birra; per il resto, la sala era vuota. Il pavimento di legno, lo specchio sopra il caminetto, la sbarra di ottone all’altezza della caviglia sul vetusto bancone scheggiato — nulla era cambiato qui. Gli odori della pipa del vecchio, della birra della sera prima, il crepitio del carbone che bruciava; sul banco un giornale piegato, chiuso alla pagina sportiva… Spider entrò e sedette su una seggiola vicino alla porta. Tutto era fermo e silenzioso; la polvere danzava nella luce invernale e un orologio ticchettava da qualche parte dietro il bancone.

Spider sedette come in trance e ascoltò il ticchettio dell’orologio, guardando i granelli di polvere. Un uomo apparve dietro al bancone, lucidando un bicchiere col grembiule. Era lui! Era Ernie Ratcliff! Le stesse mani sottili, gli stessi occhi stretti, la stessa aria astuta da donnola; anche se i capelli erano più radi adesso, l’amarezza era incisa profondamente nei lineamenti. Guardò Spider. «Cosa desidera?» disse. Spider fissò l’uomo. Ernie Ratcliff — una delle ultime persone che aveva visto sua madre viva! «’Sera, signora Cleg. Cerca il suo vecchio? Era qui, ma credo che sia andato via.» Quasi le ultime parole amichevoli che lei aveva sentito: non tanto amichevoli, perché Ratcliff non era mai stato quello che si dice «un tipo amichevole». «Cosa desidera allora?» ripeté, posando il bicchiere lucidato e passandosi le mani nel grembiule. Spider si alzò in piedi e pescò nelle sue numerose tasche, tirando fuori qualche moneta, un pezzo da tre penny, qualche mezzo penny. Andò al bar e mise le monete sul bancone. Ratcliff le guardò e, senza una parola, prese un bicchiere.