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Spider siede vicino alla porta con una mezza mild. Non succede niente. Un secondo vecchio si unisce al primo, bisbigliano fra loro e poi restano in silenzio. Spider studia i disegni sul séparé di vetro; gli fanno venire in mente le foglie di una qualche pianta, le foglie di una verdura, forse una rapa. Sì, era opera sua, gelc aveva peccato ben bene. Assaggia la birra — un immediato sibilo di disgusto da parte del verme nel polmone, una frenetica attività dei ragni. Si ricorda il racconto di sua madre sui ragni nell’olmo, e pensa al proprio corpo e alle creature che vi si sono installate. Sono una rete per le uova, pensa, e dovrei penzolare da un ramo appeso a un filo. Resta seduto lì, al caldo, fino alle tre e mezzo, quando Ernie Ratcliff lo scaccia.

* * *

Nei giorni seguenti, Spider andò spesso al Dog and Beggar. Camminava su e giù per Kitchener Street per un’ora circa, sperando di scorgere sua madre, anche se in qualche modo sapeva da quando aveva visto quel pietoso mucchio di rovine dove un tempo c’era il numero 27 che non l’avrebbe rivista mai più. E allora cosa lo riportava lì? Dio solo lo sa: forse ci andava semplicemente per contemplare la desolazione e dirsi: «Questa è opera tua, sei stato tu.» Dopo la terza o la quarta volta, riuscì ad affrontare quello scenario senza farsi prendere dalla disperazione: una curiosa calma lo pervadeva allora, un senso di rallentamento, di arrivare a una decisione, non disgiunto dalla costante e rassicurante presenza della calza appesa dentro i pantaloni. Si trattava di una calma triste, vaga, sonnacchiosa, o piuttosto di una malinconia, ed era disturbata solo dagli strilli notturni nel solaio e dalle contorsioni del verme polmonare intrappolato nel suo corpo. Adesso si muoveva adagio ma con decisione all’interno del suo spazio predeterminato, e ogni giorno passava qualche ora nel locale del bar del Dog. Gli restava solo da sistemare i conti con Hilda.

Poi un pomeriggio lasciò il Dog e seguì la vecchia e ben nota strada fino al canale, sul ponte e verso Omdurman Close, fino agli orti. A quell’ora del pomeriggio, il sole stava calando verso il fiume e la luce si ispessiva sensibilmente. Percorrendo il sentiero, si inoltrò fino al cancello di suo padre; il posto era deserto. Entrò nell’orto e si inginocchiò nel campo delle patate, poi si distese sul terreno invernale. Giacque lì, immobile, per parecchi minuti. C’era uno strano silenzio negli orti, la sua profondità e immobilità erano in qualche modo intensificate dal fioco e lontano abbaiare di un cane. C’era silenzio anche nel terreno, per cui si alzò lentamente e si diresse dietro al casotto, da dove si vedeva chiaramente l’area desolata che un tempo era chiamata «le Tegole», e al di là una distesa di magazzini e docks, e ancora più lontano il fiume. A quell’ora, il sole aveva colorato il cielo di una specie di rosso polveroso che si faceva sempre più intenso e profondo mentre lo guardava. Il fiume scintillava già delle luci della città, e adesso una flottiglia di nuvole con i bordi sfrangiati formava una lunga linea sopra il sole, con la parte inferiore arrossata dagli ultimi raggi. Il Tower Bridge si stagliava nero contro il rosso e, proprio al di sopra di esso, vide quelle che sembravano poche righe spezzate di una scritta confusa e illeggibile. Poi si voltò e si allontanò nell’oscurità dell’orto, mentre il giorno svaniva, moriva…

Oh, butto la matita disgustato. Non sono tenero o malinconico o sdolcinato, ho un pessimo umore, e questi ultimi giorni sono stati un vero inferno: non riesco a dormire, non riesco a mangiare e non riesco a sfuggire alla sensazione costante, pervasiva, quasi paralizzante, che tutto intorno a me stia diventando silenzioso e vuoto e morto. L’aria stessa sembra piena di morte! Più di una volta mi è venuto in mente di essere morto io — la presenza nel mio corpo del verme e dei ragni sembrerebbe indicarlo, il restringimento dei miei organi vitali, l’odore di marcio che filtra ormai continuamente dai miei pori — non sono questi segni di morte? Quando accadrà? C’è stato un momento della morte, un momento in cui si poteva dire: «Adesso è vivo, adesso è morto»? Non penso. Credo che sia stato qualcosa di graduale, una morte lenta che iniziò il giorno in cui mi trovai sotto l’orologio di Ganderhill con la valigia di cartone e le tre sterline — anche se, nel momento in cui lo scrivo, mi sovviene che forse incominciò anche prima, incominciò la sera in cui morì mia madre, e che da allora sono andato spegnendomi, riducendomi in cenere e polvere dentro di me, conservando solo i movimenti esterni, i goffi gesti e le posture della vita. Per cui, forse la mia non è stata affatto una vita, ma uno sbriciolamento, una costruzione infantile tenuta insieme da bastoncini e pezzi di spago — e adesso rimangono solo cenere e polvere, e i ragni che si nutrono di questo compost. Suona la campanella per la cena, ma non ho intenzione di scendere. Hilda è laggiù da qualche parte, probabilmente cerca ancora le sue chiavi. So che pensa che le abbia io, c’è il suo odore in camera e non se ne vuole andare. Sono ancora nella mia calza, ma l’ironia è che, a quanto pare, non trovo il coraggio di usarle — penso che, se dovessi aprire la porta che dà sulle scale del solaio e salire, verrei fatto a pezzi e divorato; e così subisco le loro offese piuttosto che affrontarli. E come sempre sono solo il diario e il tabacco che mi forniscono quel poco di struttura portante che posseggo.

Dopo un po’, sento la radio che suona musica da ballo nel salotto; ancora più tardi, tubi gemono e schioccano e scrosciano quando le anime morte vanno in bagno e al gabinetto per lavarsi i denti malati e svuotare le vesciche avvizzite. Anime morte! Sono la più morta delle anime morte, adesso: guardatemi sdraiato sul letto a fumare una «magra» per tenere a bada il verme del polmone, osservate questo zombie debole!

Ancora più tardi, la casa si fa silenziosa e, nella prima parte della notte, prima che inizino a cantare, mi muovo da un piano all’altro, perché mi piacciono le ombre. Mi piace soprattutto il modo in cui la luce del lampione filtra dai vetri coperti di brina della porta e diffonde una fioca luminosità nell’ingresso; siedo spesso al buio in cima alla prima rampa di scale e contemplo quel chiarore, credo che mi renda tranquillo. Ciò che mi rende ancora più tranquillo è stare in cucina a notte fonda, quando tutto è silenzioso. Una notte scoprii l’armadietto sotto il lavandino e, grazie al mio accendino, potei esaminarne il contenuto con attenzione: c’era un tubo a U che scendeva dall’acquaio; c’era una scatola di attrezzi; c’erano bottiglie di candeggina e di ammoniaca; pagliette; detersivi; una pila di giornali ingialliti; un secchio di metallo con uno spazzolone e un pezzo di sapone fenico: anche la mia fune l’ho trovata lì. Passai mezz’ora seduto a gambe incrociate a guardare nell’armadietto, con l’accendino acceso sul pavimento davanti a me. Tirai fuori tutto, disposi ordinatamente ogni cosa sul pavimento della cucina ed entrai io — non fu facile, non sono piccolo! Ma con la testa reclinata sul petto, il tubo a U premuto contro la pancia e le braccia intorno alle ginocchia riuscii a ficcarmi dentro e a chiudere la porta. Per dieci minuti, restai rannicchiato al buio e avvertii una grande pace. Poi uscii e aprii i rubinetti; col rumore dell’acqua corrente nel tubo l’armadietto era davvero accogliente; adesso ci passo trenta o quaranta minuti ogni notte.

Ma se ci resto troppo, me la fanno pagare, per cui mi vedrete emergere all’improvviso da sotto il lavandino e tornare di corsa in camera mia in preda al panico per il senso di colpa! Ah, quelle creature! Spesso ora lavorano sul soffitto: lo usano come uno schermo e vi proiettano immagini e perfino intere scene, che sono distorsioni, o elaborate parodie, di frammenti del mio passato. Hanno imparato anche l’insidiosa tecnica di prendere il contenuto dei miei pensieri del giorno e renderlo osceno o assurdo o grottesco, e a volte perfino mentre scrivo, se non riesco a impedirmi di guardare verso l’alto, vedo una rozza imitazione dell’argomento della pagina che ho di fronte — guardate adesso! Lo stanno facendo proprio adesso! Guardate come sono enormi le mie mani, sproporzionatamente enormi, e la mia faccia è lunga e gialla con la pelle che cade a scaglie come quella di un merluzzo sotto il coltello del pescivendolo! Oh guardatelo là, povero mostro, che pasticcia con la sua matita e quelle zampacce informi — la matita talmente piccola e delicata, mentre lui tenta di afferrarla e guidarla sulla carta. E io distolgo gli occhi, mi costringo a tornare al quaderno, e intanto si alza una risata stridula, ed è impossibile non sentirvi dentro la voce di Hilda, il suo tono rauco e il suo feroce sibilo di minaccia.