La colazione è un’impresa, perché i loro occhi possiedono i mezzi per distruggermi; più rischioso ancora è attraversare l’atrio verso la porta d’ingresso: il mio incubo è di scollegarmi a metà strada. Il timore lo fa succedere, per cui mi trovo alla fine della colazione a tentare di non pensare di scollegarmi; ci riesco di rado. «Signor Cleg!» griderà lei. «Dov’è il suo cappotto?» o: «Dov’è il suo cappello?» Un giorno ha detto: «È proprio ora di tagliare quelle unghie.» Il suo volto ha incominciato a frantumarsi come accadeva a Kitchener Street, occhi e mento e capelli e naso separati l’uno dall’altro e vaganti, sicché io devo riunirli con la mente per ottenere una faccia. Non cerca più di nascondere la sua inessenzialità e la sua animalità: sono evidenti nelle sue dita, che si contraggono e si allentano con rabbia e fame appena mascherate. Indossa lo stesso golf che aveva la notte in cui accompagnò mio padre al canale vicino ai gasometri, e talvolta penso che lo apra per offrirmi il suo seno, è accaduto l’altra notte; a questo pensiero, avverto un movimento nei miei polmoni. Si prende il suo tempo, però; ogni incontro si svolge improvviso e imprevisto, e mi lascia confuso. Una volta mi ha detto: «Signor Cleg, sa qualcosa del coltello per il pane?» Quel giorno salì di nuovo in camera mia, sentii il suo odore quando tornai. Era come se un branco di animali selvatici avesse vissuto lì, neanche il tabacco e la finestra aperta riuscivano a liberare la stanza da quel puzzo.
Le strade non mi danno alcun conforto: tutto sta perdendo colore, diventa pallido e secco. Anche il tempo: una successione di giornate fredde e chiare, quando la luce è così forte e brillante che il mio occhio non trova zone di colore o di ombra o di umidità in cui salvarsi. C’è sempre questa luminosità, adesso: le vie, i muri, le finestre sembrano tutti scabri, metallici, per come mi rimandano la luce bianca e costringono i miei poveri occhi a evitarli precipitosamente. Non posso più sedere vicino al canale o al fiume, per cui vado a Kitchener Street e passo le ore al Dog and Beggar. Ricordo molto bene una visita: stavo attraversando il ponte sul canale quando mi accorsi di uno schema di pensiero non mio: «Tutto ciò che tocco muore. Se mi ami, muori. Se ti tocco, muori. Tutto ciò che amo muore.»
Mi immobilizzai. Di chi erano questi pensieri? Di mio padre. Era mio padre che, per la prima volta, si manifestava in me. Seguirono altre stranezze. Quando raggiunsi il Dog non andai al mio solito tavolo sul fondo. Mi appoggiai al banco col piede sulla sbarra, come faceva sempre lui. Era di nuovo lui che si manifestava in me, e non avevo la possibilità di controllarlo. Ernie Ratcliff era ostile, anche la sua faccia si frammenta quando si avvicina a me, e allora mi viene in mente che Ernie sia morto e perciò sia o un fantasma o uno zombie come sono io. Presi la mia mezza mild e rimasi lì per più di un’ora. Fuori tabacco e cartine, e di nuovo c’era lui, c’era Horace al banco, che si arrotolava una «magra», e io ero l’impotente vittima o contenitore della sua impostura. Ero stato occupato, mi sembrava, colonizzato, invaso e, con futile rabbia, lo guardavo comportarsi come ai vecchi tempi, appoggiarsi ai gomiti, tenere la sigaretta appesa all’angolo delle labbra, voltarsi ogni volta che si apriva la porta, starsene per i fatti suoi. Quello che non faceva era bere la sua mild — il verme polmonare gliel’aveva proibito, per cui restava al Dog senza bere, restava lì in un mondo di acqua a morire di sete, sembrava! Come in un certo senso facevo io.
Mio padre incominciò a impadronirsi dei miei pensieri e movimenti sempre più spesso, in seguito, e Spider non poteva impedirglielo. Fu mio padre che incominciò a penetrare nella camera di Hilda di notte, e durante il giorno, tutte le volte che era in casa; la guardava avidamente con occhi sfuggenti e circospetti, che distoglieva appena lei se ne accorgeva. Incominciò a prendere nota di quando lei andava al gabinetto e cercò di spiarla dal buco della serratura, ma non credo che ci riuscì più di due volte. Poi, con mio orrore, un pomeriggio al Dog tentò di intavolare una conversazione con Ernie Ratcliff.
Oh, Dio buono, che umiliazione! Non era in grado, non aveva dimestichezza; erano anni che non conversava casualmente con un estraneo. Stava al banco nella posizione che ho descritto e semplicemente attaccò di getto. Ernie Ratcliff era in fondo al bancone e borbottava sottovoce con un uomo anziano sdentato e con un pizzetto bianco. «Vi ricordate Horace?» disse mio padre con un grido gracchiante che immediatamente zittì Ernie e il vecchio. «Come dice, amico?» disse uno. I loro occhi si fissarono su di lui, che ci riprovò.
«Vi ricordate Horace?»
«Di quale Horace parlate?» disse Ratcliff.
«Cleg,» disse mio padre. «Horace Cleg.»
Ernie Ratcliff scambiò un’occhiata col vecchio, poi incominciò a lucidare un bicchiere da birra con lo straccio. «Era un suo amico?» mormorò.
Mio padre tentò una risata, ma non funzionò; era quasi nel panico. «È morto durante la guerra, Horace Cleg,» disse il vecchio. «Nel corso del bombardamento.»
Ernie Ratcliff emise un piccolo sbuffo. «Ha portato via quasi tutta la strada. Ma a lui non interessava più, ormai.»
Il vecchio scosse la testa. «Non gli interessava,» disse. «Non ho mai visto un uomo perdere interesse per la vita come Horace Cleg. L’aveva distrutto, quella storia.»
«Avrebbe distrutto chiunque,» osservò Ernie Ratcliff, «perdere la moglie in quel modo.»
«Col gas,» disse il vecchio, voltandosi verso mio padre, «col gas della sua stessa cucina. Una brava donna. ‘Hilda’, si chiamava, ‘Hilda Cleg’. È stato suo figlio ad aprire il gas.» Il vecchio fece una pausa, sollevò il bicchiere con la mano tremante. Fissò mio padre con occhi acquosi e sussurrò: «Era morta, quando Horace arrivò da lei!»
Ci fu un silenzio, allora, e si sentì l’orologio che ticchettava da qualche parte dietro il banco. «Cosa ne è stato di quel ragazzo?» disse Ernie Ratcliff dopo un po’, ma mio padre non udì la risposta perché era già fuggito dal pub per non tornarvi mai più.
I giorni seguenti diventarono sempre più strani per Spider. L’oppressiva sensazione che tutti e tutto intorno a lui fossero morti lo abbandonava raramente, ormai, e sapeva di essere il responsabile di questo. Si rese conto anche che stava per avvenire una terribile catastrofe, ma non riuscì a capire che cosa fosse o da quale direzione sarebbe arrivata. Fu in questo periodo che decise di essere seppellito in mare.
Poi una notte, mentre sedeva nell’armadietto sotto il lavello della cucina, un nuovo ricordo gli affiorò alla coscienza. Era nella sua camera a Kitchener Street e stava sognando. Si trovava su una strada polverosa e diritta fino all’orizzonte lontano, e non c’era niente nel paesaggio, tranne un basso recinto di paletti bianchi che correva lungo la carreggiata all’altezza delle caviglie. Camminava verso l’orizzonte quando si imbatté nella carcassa di un pollo e rimase intrappolato fra le sue ossa. Poi la strega della notte uscì dal muro e infilò le dita fra le ossa, cercando di arrivare fino a lui e sibilando: «Spider! Spider!» Allora notò di essere nudo, ricoperto da un fungo nero e molliccio. Si percosse, cosa che lo fece pisciare e, quando ciò accadde, incominciò immediatamente a piovere, e la pioggia batteva così forte sulla sua finestra che si svegliò avvertendo l’odore di gas che c’era nella stanza. Tutte le sensazioni erano distorte, nessuna delle linee del pavimento o del soffitto sembravano unirsi, e la porta si trovava a un’enorme distanza dal letto, anche se le pareti ai suoi fianchi erano talmente vicine che sembrava di essere in un vicolo. Sul pavimento c’erano le scatole di mosche con cui aveva giocato prima di addormentarsi, per cui scese dal letto e si sedette per terra, staccando gli insetti dagli spilli e mettendoseli in bocca. L’odore del gas diventava sempre più forte e lo faceva ridere, ma la cosa strana era che, mentre rideva, non sentiva nulla. Poi, dopo qualche minuto, stette male e provò un improvviso, fortissimo senso di colpa e di desolazione. Andò alla finestra, la aprì e si appoggiò al davanzale nella pioggia battente, debole come un pupazzo, finché non gli passò, e allora ricominciò a ridere, anche se dentro avvertiva solo una sensazione di morte. Aveva infilato un lenzuolo sotto la porta; udì che l’uscio veniva aperto, e poi, ancora debole, che lo spingevano e lo trascinavano giù per le scale e fuori dalla porta d’ingresso, nella pioggia. Si rese conto allora che se l’era fatta addosso. Fissò la porta aperta del numero 27 e vide suo padre che usciva all’indietro trascinando Hilda, e questo lo fece ridere ancora di più, anche se in un certo senso lo stupiva. Più tardi, notò i vicini sul marciapiede, a piccoli gruppi sotto la pioggia, e si accorse subito che nessuno di loro era vivo, che erano tutti fantasmi. Dopo questo, ricordava una macchina nera con le luci accese e il modo in cui la pioggia cadeva obliqua davanti ai fari. Ricordava Hilda distesa su una barella e coperta da un lenzuolo — e questo lo fece ridere di nuovo, ma ciononostante aveva la mente confusa e sentiva vagamente che era stato commesso un errore.