Chiusi il quaderno e, appoggiandomi alla sedia, lo infilai sotto il linoleum, nel punto in cui si staccava dal pavimento, vicino al battiscopa. Mi sentivo esaurito dallo sforzo di memoria e congettura. Era tardi, la casa era silenziosa e buia, perfino il solaio sopra di me risultava quieto. Mi distesi sul letto, sopra le coperte sottili, senza spogliarmi. Fumai, guardando la lampadina che oscillava quasi impercettibilmente, appesa al suo cavo. Il silenzio sembrava ispessirsi intorno a me. Continuavo a guardare il soffitto e, a poco a poco, incominciai a preoccuparmi per la lampadina, il filamento luminoso all’interno del vetro grigio e sottile. Per qualche minuto, continuai a fissarla, col cervello esausto, svuotato di tutte le immagini tranne che della lampadina, che adesso aveva incominciato a sfrigolare nella mia direzione; e fu allora che mi accorsi dell’odore di gas. Era molto leggero, tanto leggero che per qualche istante pensai che dovevo essermelo immaginato. Poi lo sentii di nuovo. Sollevai la testa dal cuscino e mi guardai intorno. C’era un attacco sul muro, dove un tempo si trovava una lampada a gas, e c’era una stufetta a gas verticale collocata nel caminetto come un paravento, ma anch’essa era inutilizzata da anni. Mi alzai dal letto e, trascinando la sedia sul pavimento, ci salii su per annusare il tubo sul muro. Niente. Mi misi carponi e ficcai il naso nella stufetta. Mi sembrava difficile dire cosa c’era, si trattava di una cosa indefinita: un momento ero propenso a pensare che fosse all’interno della stanza, il momento dopo mi convincevo che era solo il ricordo di un odore, un ricordo che qualche oscura sequenza di associazioni aveva scatenato come risultato del mio scrivere. Esisteva una terza possibilità, anche se ci vollero parecchi minuti perché mi venisse in mente: che l’odore arrivasse da me, dal mio stesso corpo.
Questo fu uno shock. Mi rizzai e cercai di annusarmi. Niente. Barcollai, aggrappandomi al letto, e mi slacciai la camicia e i pantaloni, pasticciando goffamente coi bottoni per la fretta. Era lì? Di nuovo quella terribile incertezza — mi sembrava di avvertirlo, ma subito dopo era sparito. Sedetti ingobbito sul letto, trattenendomi dal rabbrividire, con la testa sulle ginocchia. Ero io? Avevo dentro del gas? Sgorgava dal mio inguine? Sollevai la testa e la voltai disperato da una parte e dall’altra. Gas dal mio inguine? Fu in quel momento che mi accorsi di un rumore nel solaio: una sommessa risata seguita da una specie di tonfo — poi scese di nuovo il silenzio.
Quella notte dormii ben poco, e la luce rimase accesa. Cercai di togliermi quella faccenda dalla mente, ma non se ne andava, e una terribile, tormentosa incertezza persisteva. Fui particolarmente a disagio durante la colazione, perché avevo la sensazione che loro potessero distruggermi, chiunque di loro, semplicemente con un’occhiata; mi sentivo come una lampadina. Fu solo quando raggiunsi il canale che riacquistai una certa parvenza di normalità e, mentre con dita tremanti arrotolavo una sigaretta e i minuti mi scivolavano addosso in quel luogo solitario, gli avvenimenti della notte finirono per sembrarmi una sorta di incubo a occhi aperti: un incubo che dopo un po’ riuscii a scacciare.
Ma il gas… Perché il gas? Non sapevo proprio cosa pensare. Era in relazione con i gasometri dall’altra parte del canale? Non ci sono gasometri in Canada, per cui quando avevo guardato le tre grandi cupole dietro la fabbrica era la prima volta in vent’anni che vedevo cose del genere: comunque è la loro struttura che mi disturba, nient’altro, la verticalità dei pali che si erge su migliaia di moduli di acciaio, e ciascuna delle quattro facce di ogni modulo appare come una cornice con dei rinforzi diagonali; collocati a quella grande altezza, essi ripetono questo modulo a croce quasi all’infinito, e se li guardo troppo a lungo finisco per concentrarmi sul modello, e l’effetto è orribilmente vertiginoso — è pazzesco, lo so, ma la sensazione è reale, però. È per questo che ho sofferto di quelle bizzarre percezioni la notte scorsa? Non sono riuscito a trovare una connessione.
Tornai a casa lentamente lungo le strade bagnate e vuote. Aveva incominciato a piovere nel pomeriggio (non ero rientrato per il pranzo), e la pioggia durava ormai da parecchie ore. Ero completamente inzuppato, ma non mi importava: mi sembrava qualcosa di purificante, e dopo gli avvenimenti stranamente insani della notte, quell’acqua era la benvenuta. Continuai a camminare, mentre il giorno piovoso si faceva più scuro, lungo una serie di sudicie arcate di mattoni, un viadotto annerito dal fumo che sosteneva le linee ferroviarie che intersecano le strade dell’East End; molte delle arcate erano chiuse con mattoni adesso, o sigillate con fogli di lamiera ondulata dietro i quali rottamai e officine facevano i loro furtivi affari. All’improvviso, un gobbo su una vecchia sedia a rotelle sbucò da uno di essi e, sbandando, svoltò dietro l’angolo; io lo seguii sotto l’arcata e, uscendo dall’altra parte, vidi di nuovo, verso est, i gasometri, la massa rugginosa di quel trio di cupole macchiate e striate di marrone rossiccio sotto la pioggia.
Scivolai in casa e andai direttamente in camera mia, dove volevo accendermi una sigaretta, perché avevo fumato pochissimo durante tutto il giorno. Rimasi in piedi vicino al tavolo mentre cercavo tabacco e cartine, e guardai fuori dalla finestra nella brutta piazza sottostante, al centro della quale c’era un giardinetto con inferriate appuntite, pochi cespugli, un albero o due, un laghetto e un qualche spiazzo d’erba dove giocano i bambini. Era quasi buio. All’ingresso del parco, chiuso dalle 5.30 del pomeriggio, c’era un unico lampione, un palo di ferro nero che sbucava da una base a calice, un corto braccio nodoso vicino alla sommità e una scatola di vetro che ospitava un globo luminoso che spandeva un alone di luce giallo dorata attraverso la quale le gocce di pioggia scendevano come fiocchi, come tracce o indizi. Le mie abili dita presero il tabacco e lo sparsero sulla cartina, che arrotolai leccandone il bordo. Possiedo un piccolo accendino di metallo con il coperchio: con esso accesi la sigaretta e poi la fumai. Scese la notte, e l’alone giallastro del lampione rinforzò e brillò nell’aria che si anneriva, e ancora le gocce di pioggia cadevano leggere e oblique al suo interno, come tanti ricordi che scivolassero su una mente confusa e ottenebrata. Sedetti al tavolo e presi il mio quaderno.
La domenica seguente si era presentata luminosa e chiara e, prima delle otto, sentii mio padre che, giù in cucina, riempiva il bollitore e accendeva il gas. Udii il rumore della grossa padella nera che veniva appoggiata sulla cucina economica, sentii il contenitore del pane che veniva aperto per prendere gli avanzi del giorno prima. Poi silenzio — il profumo del grasso di bacon che risale le scale… Lui è seduto a tavola e beve il tè da una tazza di smalto bianca e sbeccata e immerge il pane nel grasso bollente. Una sedia trascinata — si sta allacciando gli stivali… Poi fuori dalla porta; dalla finestra della mia stanza lo vedo camminare nel cortile verso la sua bicicletta.
Dev’essere stato quel pomeriggio che Hilda Wilkinson attraversò la ferrovia presso il ponte oltre Omdurman Close e imboccò il sentiero verso gli orti. Mio padre era nel suo casotto a fare la cernita in un canestro di patate che aveva raccolto quella mattina. L’interno di quel casotto — che brivido suscita ancora in me il solo pensiero di quel posto! — era molto scuro e odorava fortemente di terra. C’erano sempre pile di casse e sacchi e canestri là dentro, e attrezzi naturalmente, vanghe e rastrelli e zappe ecc, pacchetti di semi legati a mazzi con spago e riposti sopra scaffali, e su nell’ombra, attaccate alle travi, le ragnatele. A volte mi chiudevo la porta alle spalle e le guardavo per ore, e nel buio profondo del casotto — non aveva finestre, e l’unica luce era quella che filtrava dai buchi e dalle fessure — alla fine scorgevo una grande ragnatela che tremava mentre il suo artefice correva veloce verso il suo pasto lungo una sottile trappola di refe. Altre volte aprivo la porta e lasciavo che il chiaro del giorno inondasse per un momento il casotto, e allora le ragnatele brillavano al sole mentre io fissavo incantato la delicatezza e la perfezione della loro fattura. Ma, per qualche ragione, non avevo mai tempo di esaminarle attentamente alla luce. C’era anche una poltrona imbottita di crine consunta e zoppa, là dentro, e accanto a essa una cassa di legno con una candela fissata in un lago di cera vecchia; e infine, su uno scaffale della parete di fondo, c’era un furetto impagliato in una teca di vetro impolverata, di cui ignoro la provenienza. Digrignava i denti bianchi e aguzzi; aveva una zampa alzata, il corpo magro e agile bloccato in una posizione di allarme improvviso, e benché uno dei suoi occhi di vetro mancasse e l’imbottitura spuntasse dall’orbita, l’altro scintillava nell’oscurità e mi turbava sempre se lo guardavo troppo a lungo, da creatura maligna qual era.