«Aria cattiva,» disse Hilda soprappensiero, accarezzando il gatto. «Non sente la puzza?»
«Viene dal vostro bagno,» disse mio padre.
Hilda sorrise. A causa della mandibola, era un sorrisetto strano, simile a una breve fessura con piccole aperture ai lati, e mio padre ne fu colpito. «Lo spero proprio,» disse lei. «Incredibili le condizioni in cui si trovano i tubi in questo posto.» Sempre sorridendo, permise ai suoi occhi di soffermarsi languidamente sull’uomo triste e rigido davanti alla sua camera. «Be’, ha intenzione di restare lì tutto il giorno?» ripeté. «Vuole ripararmi i tubi o cosa?»
Mio padre scoprì, come pensava, che non c’era acqua nella tazza del water e quindi niente bloccava il passaggio dei gas della fognatura. Il problema al sifone era la conseguenza di una differenza di pressione causata, come il colpo di maglio, da un blocco o da un ostacolo in uno dei tubi di sfiato. Il suo compito era individuare l’intoppo ed eliminarlo; pensò immediatamente a un nido di topi: entravano spesso nei tubi di questi vecchi edifici. Avrebbe controllato l’impianto chiudendo tutti i tubi e poi aprendo l’acqua; un’ispezione alle valvole e ai rubinetti l’avrebbe condotto alla causa del malfunzionamento.
Ho posato la matita. Mi trovavo in un territorio totalmente sconosciuto. Io conobbi Hilda Wilkinson solo più tardi, e a quel punto la sua relazione con mio padre era progredita ben oltre questi primi contatti formali. Per cui sto avanzando alla cieca, facendomi guidare quasi solo dall’intuizione.
Presumo che mio padre abbia sistemato il sifone di Hilda e il problema del colpo di maglio: normale amministrazione, per un idraulico competente, anche se non posso dire se fosse davvero un nido di topi. Quand’ero un ragazzino, mio padre mi parlava spesso del suo lavoro, mi mostrava gli attrezzi, mi spiegava a cosa servivano e, se doveva effettuare qualche riparazione in casa, gli facevo da aiutante: ero io che dovevo passargli la torcia o la chiave numero 8 o qualsiasi altro strumento. Cosa piuttosto strana, sembrava che ci fosse sempre qualcosa che non andava anche nel nostro gabinetto, fuori in cortile; quando si tirava l’acqua, questa arrivava fino all’orlo della tazza e a volte traboccava sul pavimento. Ma era come il problema dell’intonaco nella mia stanza, quando riparavamo il guasto, lo scarico funzionava solo per un mese o due, e poi si ripresentava l’inconveniente. Non credo che si possa rimproverare a mia madre di averlo tormentato per questo, dopo tutto lui era un idraulico e, quando l’acqua fuorusciva, era lei che doveva asciugare. Come lavorava, mia madre! Ricordo che tornavo da scuola e la trovavo in ginocchio a fregare il pavimento della cucina, con un secchio d’acqua sporca di fianco, mentre spingeva a due mani una grande spazzola dura. Sapevo quello che succedeva alle mani delle donne di Kitchener Street: sottovoce, fra loro, al di là dei muretti dei cortili, dicevano di essersi consumate le dita a lavorare, ma era vero il contrario: anni di acqua calda e di sapone avevano coperto le loro ossa di una carne snervata e abbondante, le loro mani erano cose rosse, informi, flaccide; e, se mia madre fosse vissuta, credo che la stessa cosa sarebbe capitata a lei. Ma lei era ancora giovane, quando tutto questo accadde, non aveva ancora perso il fiore della sua giovane femminilità.
Quando tutto prese ad andare male? Quando incominciò a morire? Ci fu un periodo in cui eravamo felici; immagino che la decadenza sia stata graduale, una funzione della povertà e della monotonia e della tristezza assolutamente lugubre di quelle stradine e di quelle viuzze. Anche il bere giocò la sua parte, al pari del carattere di mio padre, del suo innato squallore, della morte che aveva dentro e che fece in tempo a infettare mia madre e me, come una malattia contagiosa.
Due o tre sere dopo, mentre si trovava nel bar del Dog and Beggar, egli sentì i toni profondi della voce di Hilda provenire dal salottino privato. Finì la pinta di mild e uscì sulla strada, diretto verso la porta del séparé. La apri. Hilda era seduta al tavolo con tre amici; si voltarono verso di lui. Il viso di Hilda appariva arrossato e, nel preciso momento in cui mio padre comparve sulla soglia, un bicchiere di porto era a metà strada verso le sue labbra. E 11 rimase, mentre lei sollevava le sopracciglia e sorrideva con quel suo sorriso strano. Nora sedeva accanto a lei; dall’altra parte, c’era una donna scura, con l’aria civettuola, e un giovane magro, con i capelli lunghi. Era una sera secca, fredda e senza luna di fine novembre, e nell’improvviso silenzio che scese nella stanza si sentiva solo il lontano mormorio del traffico, da tre strade più in là, e il ronzio attutito delle conversazioni nelle altre sale del Dog. Gli occhi di Hilda andarono da mio padre agli altri tre seduti al tavolo. Poi posò il bicchiere — mio padre stava ancora sulla soglia —, si alzò e attraversò il salottino, arrivando fin sulla strada. Quando lui lasciò che la porta si chiudesse alle sue spalle, una sommessa risata si levò intorno al tavolo.
Percorrendo i vicoli che correvano sul retro delle case si diressero verso il canale. Hilda era di buon umore. Aveva dimenticato il nome di lui, però. «Horace!» esclamò. «È sempre stato uno dei miei preferiti. Avevo un gatto che si chiamava ‘Horace’, una volta.» Parlò del tempo. «Freddo, eh?» disse. «Meno male che ho la pelliccia.» Cosa passava nella testa di mio padre? Cosa pensava che sarebbe successo? La guardò con la coda dell’occhio. La donna camminava al suo fianco con le spalle chine e le mani sprofondate nelle tasche. «Ha fatto davvero un bel lavoro,» disse. «Non si sente neanche uno scricchiolio, adesso. La puzza, però, non è scomparsa.» Parlarono di idraulica per qualche minuto. Hilda ne sapeva molto poco e sembrava colpita dal fatto che mio padre ovviamente dominava la materia. Era una donna gioviale, e ben presto lo fece ridacchiare fra sé.
Avevano raggiunto il ponte sul canale dei gasometri. Lei lo guidò verso alcuni scalini scivolosi che davano su un vialetto proprio a livello dell’acqua. «Forza, allora, Horace,» mormorò, scendendo allegramente. «Andiamo giù.» Adesso erano ben nascosti alla vista dei passanti. Hilda si aprì la pelliccia, si slacciò il golfino e gli mostrò i seni. Poi gli mise un braccio intorno alla vita e con l’altra mano gli accarezzò il davanti dei pantaloni, sorridendogli. «Ti piace, Horace?» sussurrò. Con i tacchi, aveva esattamente la sua stessa altezza, ma probabilmente era un po’ più massiccia; il fatto di sentire il peso della sua mano premuta su di lui quasi sopraffece l’uomo. Infilò le mani nella pelliccia e toccò esitante i suoi seni, poi cercò di baciarla sulla bocca, ma lei voltò il viso. Nei calzoni il suo pene era duro; Hilda continuò a sussurrargli mentre lo accarezzava con il palmo, poi abilmente slacciò l’ultimo bottone della patta e glielo tirò fuori. «Cos’è questo, dunque?» mormorò. Era un pene insolitamente sottile, quello di mio padre, ma duro come una matita, e sussultante. Hilda si sputò sulle mani. «Ooh, Horace,» sussurrò. Lo portò all’orgasmo con una mezza dozzina di rapidi colpi, scostandosi mentre lui schizzava nel canale. Poi si allontanò, rimise i seni nel golfino e si chiuse la pelliccia con un brivido. Mio padre era sul ciglio del vialetto e le dava le spalle, pisciando nel canale. Riusciva a vedere il proprio sperma che si allontanava sull’acqua scura, in filamenti sottili, grigiastri e traslucidi. «Sbrigati, su, Horace,» disse Hilda, battendo i denti. «Sto gelando.» Ma mio padre voleva restare da solo; le disse che intendeva restare fuori a fumare. «Come preferisci,» disse lei allegramente. «Io torno al Dog.»